“La mafia e li parrini La mafia e i preti/si déttiru la manu si sono dati la mano/poviru cittadinu povero cittadino/poviru paisanu povero paesano”. Mafiosi e preti assieme, così scriveva il poeta siciliano Ignazio Buttitta nel 1973. È un fatto storico che tra la Chiesa e le organizzazioni criminali ci sia un rapporto quantomeno ambiguo, fatto di amore e odio. In alcuni casi caratterizzato da collusioni e adesioni, in altri da ostilità e lotta.
La battaglia di don Coluccia
Tra gli esempi di dissidenti troviamo don Antonio Coluccia. Il prete salentino, che opera a Roma e vive da due anni sotto scorta, ha subìto tre aggressioni tra la fine di agosto e l’inizio di ottobre 2024. Tre in poco più di un mese. Il 30 agosto durante una marcia per la legalità – che lui preferisce chiamare presidio pastorale – nel quartiere di Tor Bella Monaca un uomo in scooter ha cercato di investirlo. Il 3 settembre un altro assalto sempre durante un presidio. Stavolta al Quarticciolo, altra piazza di spaccio come Tor Bella Monaca. Così come il 7 ottobre. Un uomo ha cercato di colpire il prete con una bomboletta d’acciaio. Non ce l’ha fatta, ma è riuscito a scappare perché sessanta persone, comparse all’improvviso, si sono avventate sui poliziotti della scorta, prendendoli a calci. Uno dei violenti ha persino tentato di sguinzagliare un pitbull contro gli agenti.
Preti “antispaccio”
Da anni don Coluccia agisce nelle periferie romane lottando contro lo spaccio di stupefacenti, così come fa don Maurizio Patriciello a Caivano, in provincia di Napoli, anche lui sotto scorta da quando la camorra ha fatto esplodere una bomba davanti alla sua chiesa nel 2022. «Io ogni giorno sono in una scuola diversa a titolo gratuito, e non solo in Campania, anche in Puglia, Basilicata e Calabria – dice Don Patriciello a #Noi Antimafia – perché bisogna avere un esercito di testimoni che aiutano i ragazzi e un esercito di forze dell’ordine sane». Il parroco si batte quotidianamente per i suoi ragazzi, per far capire loro che hanno un’alternativa oltre allo spaccio, «ma ancora troppi giovani fuggono dopo la prima comunione. La camorra ha bisogno della manovalanza, i soldi sono tanti e le esigenze da soddisfare pure».
Non è facile impegnarsi nelle periferie ogni giorno, denunciare la criminalità organizzata e lavorarla ai fianchi, colpendola nel suo bacino di risorse, quello che le permette il rinnovamento: i giovani. «Si inizia col fare il pusher e poi pian piano si fa una vera e propria carriera. Tanti sono morti di overdose, tanti sono finiti in carcere e poi dopo li andiamo a trovare, perché la nostra azione pastorale non finisce neanche quando vengono arrestati. Sono ragazzi a cui tu vuoi bene. Li hai visti crescere e forse li hai anche battezzati» ci racconta.
Il lavoro di squadra
Un prete come lui da solo può tanto, ma non tutto. «La mafia – dice -è un albero maledetto, che affonda le sue radici in un terreno maledetto che è la cultura mafiosa. Se ti metti a tagliare tutti i rami hai fatto tanto, ma non hai risolto il problema, per quello serve un aggancio tra la Chiesa, la comunità parrocchiale, lo Stato, il lavoro e la cultura».
Don Patriciello gira spesso per il Parco Verde, il rione di case popolari in mano alla criminalità organizzata, che ha «creato un vero e proprio mercato nero delle abitazioni, grazie anche al disinteresse del Comune di Caivano, adesso sciolto, infatti, per infiltrazione mafiosa». Cammina assieme a un carabiniere, il capitano Antonio Maria Cavallo. «Io ci tengo – aggiunge il sacerdote – a passeggiare con lui per il Parco, la gente deve vedere che è mio amico e accettare le forze dell’ordine. Bisogna dare tutte le opportunità a chi delinque per necessità, ma essere severissimi con chi delinque per scelta».
“Il conforto spirituale di un boss non è favoreggiamento”
Don Coluccia e Don Patriciello sono stati battezzati “preti antimafia”, ma la definizione ci suggerisce che qualcosa non va. Non dovrebbero essere tutti i preti per loro natura antimafia, anticriminalità? Non sono gli insegnamenti religiosi e del Vangelo diametralmente opposti alle attività di questi assassini? In teoria sì, ma in pratica così non è. Tra i casi più emblematici quello di padre Mario Frittitta. Per otto anni il sacerdote avrebbe favorito la latitanza di Pietro Aglieri, il più grosso e ricco trafficante di droga della Sicilia occidentale, nonché uno tra i più spietati membri della fazione corleonese di Cosa Nostra. Dopo la sua cattura, avvenuta nel 1997, padre Frittitta è stato incarcerato per quattro giorni e condannato in primo grado a due anni e quattro mesi per favoreggiamento, ma poi assolto in Appello e Cassazione.
«La conversione del peccatore, anche del mafioso messo al bando dalla stessa Chiesa, è un diritto che ogni sacerdote può esercitare. E dunque non può essere condannato per favoreggiamento un prete che ha incontrato di nascosto un latitante per portargli conforto spirituale», questa la motivazione dell’assoluzione. Padre Frittitta era della Kalsa, il quartiere arabo di Palermo, così come lo erano i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Negli otto anni di latitanza del boss, in cui il parroco si recava nel suo covo per dire messa e confessarlo, Aglieri ha partecipato all’ideazione delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, in cui i due giudici furono assassinati assieme alle loro scorte.
Il caso don Agostino Coppola
Padre Frittitta non è stato un caso isolato. Don Agostino Coppola, nipote del capo di Cosa Nostra americana, Frank Coppola detto “Tre dita”, faceva addirittura parte dell’organizzazione fin dal 1969. Don Coppola era legatissimo a Luciano Liggio, la “primula rossa”, tra i più potenti boss di Corleone. È con lui che prese parte ai sequestri di Luciano Cassina, di Luigi Rossi di Montelera e dell’industriale Emilio Baroni. Il prete venne arrestato nel 1974, anno in cui aveva anche sposato in segreto il capomafia Totò Riina, allora latitante, con Ninetta Bagarella. È stato poi condannato due volte in via definitiva: nel 1976 a quattordici anni di carcere per il sequestro di Luigi Rossi di Montelera e nel 1977 per estorsione.
Le cosche mafiose tra omelie e feste patronali
La connivenza tra Chiesa e mafiosi non è solo una parentesi relegata al secolo scorso. Basta ricordare pochi esempi. Nel 2013 a San Paolo Belsito, in Campania, un prete durante l’omelia domenicale ha ricordato i giovani che non hanno potuto «riacquistare la libertà», tra questi anche il camorrista del posto Michele Russo. Lo stesso parroco aveva deciso che a portare il giglio sulle spalle durante la festa patronale di Nola, in onore di San Paolino, sarebbe stato Vincenzo Giagnuolo, un altro camorrista. Si tratta di un riconoscimento di non poco conto: Nola è chiamata la città dei gigli proprio per la festa che si svolge ogni anno in giugno. La festa dei Gigli c’è anche a Napoli, nel quartiere periferico di Barra, dove la banda non suona solo canzoni popolari, ma anche la colonna sonora del film “Il Padrino”.
Nel 2011 i boss locali sfilarono con una Rolls Royce bianca, con annessa benedizione dell’obelisco del clan da parte del parroco del posto. Spesso i mafiosi non sono solo “invitati d’eccezione” alle feste patronali, le celebrazioni sono proprio controllate e pagate dalle cosche, con il silenzio della chiesa locale. Ecco allora che nel 2000, sempre alla festa dei gigli di Barra, spuntano dei manifesti con scritto “Omaggio per la tradizionale festa dei gigli ai piccoli padrini Luigi e Gennaro Aprea”, cioè i figli minorenni di Giovanni Aprea, il boss che anche dal carcere controllava il quartiere. La ‘ndrangheta addirittura elegge da un secolo il suo nuovo capo durante la festa della Madonna dei Polsi, nella prima domenica di settembre.
L’atteggiamento della Chiesa nella lotta alla mafia
«L’atteggiamento della Chiesa italiana è sempre stato quello di guardare ai mafiosi più che come a dei criminali, a delle pecorelle smarrite da ricondurre alla vita corretta e non da condannare», ha spiegato a #Noi Antimafia Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia dal 2013 al 2017. «La Chiesa non si è mai esposta veramente. La prima volta l’ha fatto la Cei, la Conferenza episcopale italiana, nel 2010, – ha aggiunto – quando ha definito la mafia “la configurazione più drammatica del male e del peccato”».
Ci sono due episodi che si ricordano spesso quando si parla di Chiesa e lotta alla mafia: le parole del Cardinale Pappalardo a Palermo, durante i funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur (mentre a Roma si pensa sul da farsi, Sagunto è espugnata) e questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera la nostra Palermo”. E il monito ai mafiosi “Convertitevi” di Papa Giovanni Paolo II nel 1993 alla Valle dei Templi di Agrigento. Ma questi esempi bisogna contestualizzarli, ricorda Franco Roberti «Pappalardo fino a quel momento aveva sempre taciuto, pur essendo da vari anni Arcivescovo di Palermo e dopo quell’omelia è tornato nel silenzio, anche perché qualche mese dopo, a dicembre, i mafiosi gli lanciarono un segnale ben preciso, disertando la sua messa natalizia nel carcere dell’Ucciardone», specifica l’ex procuratore.
Per quanto riguarda l’invettiva di Papa Wojtyla «poco prima di quella predica, aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino, il giudice ragazzino, assassinato dalla Stidda di Agrigento, e la loro rassegnazione lo aveva colpito a tal punto che mise da parte il discorso che aveva preparato e fece la famosa invettiva, ma poi al di là di questo episodio nulla più. Anzi i due sacerdoti Don Puglisi – ucciso da Cosa Nostra pochi mesi dopo – e Don Diana – ucciso dalla camorra l’anno seguente – sono stati lasciati soli e come ricordava Falcone si muore quando si è soli».
Il tentativo di invertire la rotta di Papa Francesco
Un cambiamento forse nei rapporti tra la Chiesa come istituzione e la mafia si può notare dal pontificato di Papa Francesco. «Da quando c’è Bergoglio, ho notato un inizio di presa di coscienza da parte della Chiesa – dice Roberti – siamo stati coinvolti anche noi magistrati, sono stato invitato dai Gesuiti a parlare di criminalità organizzata, cosa mai avvenuta prima, ma siamo dovuti arrivare al 2015 e le mafie per due secoli hanno interessato il nostro paese, grazie anche ai silenzi alle connivenze e alle sottovalutazione e a volte anche al sostegno della Chiesa Cattolica». Nel 2015 Papa Francesco in Calabria pronunciò queste parole: «I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati».
Eppure, nel 2016 la salma di Bernardo Provenzano, “capo dei capi” di Cosa Nostra chiamato “u Tratturi” per la violenza con cui uccideva, è stata benedetta. Nello stesso anno la Chiesa ha celebrato i funerali di Giuseppe Barbaro, appartenente all’omonima cosca ‘ndranghetista di Platì, in provincia di Reggio Calabria. E ancora, sempre nel Reggino, a Limbadi, nel 2017 le indagini e le intercettazioni telefoniche hanno accertato i legami tra la Congregazione Ancelle Francescane del Buon pastore e la cosca Mancuso «noi abbiamo la ‘ndrangheta che ci protegge», diceva una delle suore.
La predica e l’azione
La scomunica di Bergoglio, se da un lato segna un passo importante, non riesce però a risolvere il problema del sostegno ai mafiosi da parte di alcuni esponenti del clero, specialmente per i preti più “incalliti”. Nel 2019 è stata celebrata la messa del trigesimo per il boss mafioso Tommaso Spadaro detto “il re della Kalsa”. Il questore dell’epoca Renato Cortese aveva vietato il funerale per il capomafia. Ad aggirare il divieto ancora lui, don Mario Frittitta. Dopotutto le parole del Pontefice, per quanto apprezzabili, restano quello che sono, ossia parole e, pertanto, hanno «effetti limitati».
È di questa idea Raffaele Carcano, autore italiano, laureato in scienze storico religiose ed ex segretario dell’Unione degli atei e agnostici razionalisti. «Quella di Bergoglio non è stata una scomunica latae sentantie come definita dal codice di diritto canonico. Un effetto concreto si può avere cambiando il codice, finché non lo si fa qualsiasi prete “ben disposto” nei confronti dei mafiosi può continuare a celebrare le loro funzioni religiose senza ritorsioni», dice a #Noi Antimafia.
Carcano: «Nessun vantaggio a dichiarare guerra ai clan»
Se è innegabile la lotta che alcuni preti hanno combattuto in passato e altri sacerdoti ancora oggi conducono contro le mafie, mettendo in pericolo la loro vita, non si può dire che la Chiesa sia un’istituzione antimafia. E d’altronde molti boss si dichiarano religiosissimi. Da Provenzano che aveva riempito il suo covo di santini e immagini religiose ad Angelo Bottaro, boss di Siracusa, che si presentava ai processi con il crocefisso in mano e fu ammazzato mentre recitava il rosario. «La Chiesa è forse la multinazionale più ricca del mondo – continua Carcano – è un potere anche più grande della mafia, e quest’ultima ha fatto con lei lo stesso che ha fatto nei confronti di ogni potere che ha considerato utile.
La Chiesa come istituzione non ha interesse a scatenare una guerra su questo fronte e non chiederà mai ufficialmente ai suoi parroci di prendere decisioni drastiche. Basta guardare alle sue “graduatorie”, chi abortisce è scomunicato latae sententiae, chi fa parte della mafia no». L’unico anticlericale dichiarato tra i mafiosi è stato Matteo Messina Denaro, un’anomalia per i boss, che ottengono il consenso anche attraverso lo sfruttamento del cattolicesimo e delle sue liturgie. In uno dei pizzini ritrovati nel suo covo e databile al 2013 ha scritto: «Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato». A dirlo è stato un killer spietato.