Le mani della mafia nelle stragi di Stato

Le mani della mafia nelle stragi di Stato

Tre attentati quasi contemporanei a Milano e Roma, in luoghi frequentati e simbolici, con matrici e finalità oscure. Era successo solo il 12 dicembre del 1969. Questa è una nuova “strategia della tensione”. Così il giudice Gerardo D’Ambrosio, protagonista di una storica istruttoria su Piazza Fontana, commentò le tre autobombe che, la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 esplosero a breve distanza in via Palestro a Milano e vicino alle chiese capitoline di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, provocando complessivamente 32 feriti e, a Milano, 5 morti. Per capire il riferimento alla bomba scoppiata alle 16.37 del 12 dicembre di 24 anni prima, nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, a pochi passi dal Duomo meneghino, occorre fare un passo indietro. 

D’Ambrosio ebbe un ruolo fondamentale per restituire verità storica a una delle pagine più nere della storia d’Italia, il giorno che segnò la “perdita dell’innocenza della giovane democrazia italiana”, coi suoi 88 feriti e 18 morti. Si considera nel conto anche il ferroviere Giuseppe – per tutti Pino – Pinelli, morto dopo una caduta dalle finestre della questura milanese dopo giorni di fermo illegale tre giorni dopo la strage, il 15 dicembre: le sentenze parleranno di un grottesco “malore attivo”, ma in questo caso, come in tutti gli altri della cosiddetta strategia della tensione, la verità storica va in un’altra direzione. 

Il senso di collegare questi due punti estremi temporali in una ipotetica linea nera che unisce quasi tre decenni di storia d’Italia lo restituisce non soltanto lo stesso D’Ambrosio, che all’indomani delle stragi del 1993 dirà “ho pensato subito a piazza Fontana”, ma anche un accurato saggio di Paolo Biondani, giornalista de L’Espresso, che in “La ragazza di Gladio” – edito da Fuoriscena – ricostruisce “la trama nascosta di tutte le stragi”. E lo fa puntellando le verità storiche ed i fatti accertati di una fase storica la cui ricostruzione istituzionale si regge, tutta, su una serie accurata e pressoché infinita di depistaggi. A cominciare, ovviamente, da quello che pretendeva gli anarchici colpevoli della strage, in particolare Pinelli, ferroviere pacifista ed esperantista, e Pietro Valpreda. Entrambi riconosciuti, va da sé, del tutto innocenti molti decenni dopo, quando l’uno aveva pagato con la vita questa infamante accusa e l’altro con una brutalizzazione lunga decenni di giornali che continuarono inopinatamente a definirlo “una belva umana irrimediabilmente affetta dalla Lue (la sifilide) comunista”. 

Depistaggi operati, ed è anche questo un fatto accertato dalle sentenze, da quelli che la formula comune chiama “servitori dello stato”. Militari e membri dei servizi segreti che oggi si usa chiamare deviati, ma che si può oggi ricostruire agirono, piuttosto, senza deviare affatto da una immagine molto chiara dello Stato che intendevano costruire, somigliante alle molte dittature di destra e neofasciste che si affermarono in Spagna, in Portogallo, in Grecia e che, in Italia discendevano direttamente dalla Repubblica Sociale Italiana, la cosiddetta Repubblica di Salò. Del resto membri delle istituzioni condannati, o storicamente accertati  per essere stati parte della strategia della tensione, avevano conservato nell’Italia repubblicana ruoli di potere già rivestiti durante il ventennio. 

Era così per Marcello Guida, il questore di Milano che arrestò Pinelli, che si trovava nella stanza dalla cui finestra cadde il ferroviere anarchico e che, sotto il fascio, aveva diretto la colonia penale di confino politico di Ventotene. Era così, soprattutto, per Federico Umberto D’Amato, indicato dalla magistratura come uno dei mandanti della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Dirigente del servizio segreto militare, chiamato (così il titolo di un accurato testo che ne ripercorre la biografia) “la spia intoccabile”, fino all’armistizio fu agente di pubblica sicurezza a Roma, divenendo poi membro dello spionaggio alleato. E molte altre sono le figure che a questa matrice si possono ormai storicamente ricondurre.

Non è in questo senso una forzatura chiamare Stragi di Stato, per mano neofascista prima e mafiosa poi, quelle che in quegli anni insanguinarono l’Italia. La sigla neofascista Ordine nuovo, ad esempio, riconosciuta colpevole di stragi tra il 1969 e il 1974 in Veneto, Lombardia e Friuli – spiega Biondani, rifacendosi alle sentenze – “non era una organizzazione occulta, ma una corrente del Movimento sociale italiano, casa istituzionale del neofascismo dell’Italia repubblicana”. Sarebbe importante, soprattutto ad uso delle generazioni più giovani – e Biondani lo fa con documentaristica precisione e ricorso rigoroso alle carte giudiziarie e agli esiti accertati – ricostruire qui tutta la trama che lega, a partire dal pomeriggio di dicembre milanese, ad esempio la strage di Brescia, in piazza della Loggia, del 1974, dove una bomba collocata in un cestino dai militanti della sigla neofascista Ordine nuovo esplose colpendo i partecipanti a un comizio antifascista, uccidendone otto e ferendone più di 100. In quelle stesse strade, il 14 dicembre 2024, hanno marciato inquadrati più di 500 neofascisti, al grido di “Brescia è nostra e ci appartiene”.

Sarebbe utile seguire quella striscia di sangue e di intenti eversivi – che tocca Peteano, dove nel 1972 un’autobomba uccise due carabinieri e ne ferì altri tre – e si ferma due volte nella galleria ferroviaria di San Benedetto Val di Sambro, dove esplodono prima il treno Italicus, nel 1974, e poi il rapido 904. Nella cosiddetta strage di Natale 1984. Morirono, rispettivamente, 12 e 16 persone. La prima volta per mano neofascista, la seconda – in una esplicita replica, per mano di mafia. Il messaggio, a questo punto, da parte di cosa nostra era chiaro: “ci sarà una nuova strategia della tensione”. Il metodo della strage sui treni, attuato per fare indiscriminatamente più vittime possibili e per diffondere nella popolazione un panico che facilitasse l’instaurazione di un regime militare e securitario, aveva già trovato il suo apice ad agosto 1980 a Bologna, dove un gruppo neofascista fece esplodere una bomba nella sala d’aspetto di seconda classe, uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200.

Ma perché, al netto delle palesi volontà emulative, legare le stragi neofasciste a quelle di mafia? Perché, spiega Biondani nel suo libro, l’una si è servita dell’altra, e in entrambi i casi c’è la mano di porzioni delle istituzioni, che anche nelle stragi di mafia posero in atto depistaggi che ancora oggi allontanano la verità storica. Si pensi all’agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita dalla borsa del giudice appena dopo l’attentato in via D’Amelio che uccise lui e la sua scorta Se, scrive Biondani “i processi di revisione hanno dichiarato con certezza che, a farla sparire fu un rappresentante delle istituzioni”, ad ottenere il compito di ricostruire la vicenda, senza portare ad alcun esito, fu ancora una volta, un membro del servizio segreto militare che Biondani definisce “nemico giurato di Falcone”, poi condannato come complice istituzionale di cosa nostra. 

Falcone medesimo, poi, lo raccontano gli appunti degli ultimi giorni prima della strage di Capaci, trovati nel suo computer, conservava – insieme a quelli sulle stragi di mafia – gli atti delle inchieste su Gladio, struttura che meriterebbe una trattazione a parte ma che qui si può sinteticamente definire organizzazione paramilitare costruita d’intesa tra i servizi segreti italiani e la CIA per contrastare l’ascesa del comunismo, che il pentito Vincenzo Vinciguerra accusò di aver compiuto la strage di Peteano, di aver avuto un ruolo in quella di Bologna e attraverso cui, lo disse lo stesso generale dei servizi segreti Gianadelio Maletti (la cui storia personale e politica si avvicina a quelle di Guida e di D’Amato) condannato tra i mandanti della strage di Piazza Fontana, prendeva forma una “regia internazionale” delle stragi relative alla strategia della tensione. 

Non è l’unica organizzazione di collegamento tra queste realtà. C’è anche la “Rosa dei venti”, guidata dal colonnello Amos Spiazzi, amico dei neofascisti di Ordine Nuovo e che ammise di aver distribuito fondi destinati a quella organizzazione ad amici neofascisti. Spiazzi stesso confesserà – venendo poi assolto, malgrado questo dall’accusa di aver fatto parte di una associazione eversiva – “di aver fatto parte di una organizzazione autorizzata ai massimi livelli, anche fornita di armi, per contrastare i comunisti”, ma di non poter dire di più perchè coperto dal segreto militare. Un’ammissione che evoca il disperato quanto netto riferimento alle “menti raffinatissime” a cui Borsellino fa riferimento adombrando i responsabili della strage di Capaci.

Nei suoi atti giudiziari, del resto, attenendosi alla sintesi di Biondani nel suo libro, anche “Falcone si era convinto che alcuni dei più potenti boss di cosa nostra avessero stretto un’alleanza criminale con terroristi di destra, strutture occulte legate ad apparati militari, servizi deviati e massoneria”. Accadeva, questo, negli anni di massimo potere della P2, loggia massonica anch’essa deviata guidata dal potentissimo Licio Gelli (a sua volta neofascista, condannato come mandante delle stragi neofasciste e, lo accusano le sentenze, capace di determinare l’azione di tantissimi altri quadri dello stato). 

Ad essere protagonisti di questo accordo tra eversione di destra e mafia sarebbero stati in particolare i Nar, nuclei eversivi d detra riconosciuti dalle sentenze come colpevoli della strage di Bologna. Biondani, quindi, arriva a concludere il suo libro affermando che “la campagna di attentati sanguinari”  – che coincidono con le più note stragi di mafia, ma anche con Mani pulite, che “cambiò il sistema di potere in Italia” -, nascondevano una nuova strategia della tensione. In questa trama c’è un disegno di stampo terroristico, organizzato e attuato da cosa nostra. Ma probabilmente non è solo mafia”. 

Che cosa sia, saranno le sentenze a stabilirlo. Certo, libri come questo sono essenziali a fare memoria sulla storia d’Italia, e sui passi ancora da compiere per smascherare chi, come chiosa Benedetta Tobagi nell’introduzione al saggio, citando il giudice Tamburino, che condusse le inchieste contro la Rosa dei venti e ne accertò il legame con l’eversione neofascista, fece quanto era in suo potere per “rendere difficile una verità non difficile”.