Emanuele D'Errico, referente artistico della compagnia teatrale Putéca
Emanuele D'Errico, referente artistico della compagnia teatrale Putéca Celidònia

L’arte di recitare è l’alternativa alla camorra nel Rione Sanità

“Questi spazi sono miei. Però sono contento che ci siate voi. Siete dei ragazzi, siete giovani, fate una bella attività, lavorate coi bambini. Sono contento, però me li riprenderò”. Questo è il benvenuto che si è sentita rivolgere dall’ex proprietario la compagnia napoletana Putéca Celidònia, che da più di un lustro sta riscrivendo il volto del Rione Sanità di Napoli attraverso il teatro. Partendo da due piccoli spazi confiscati alla camorra, un gruppo di giovani artisti pieni di intraprendenza hanno trasformato un vicolo buio che i concittadini evitavano accuratamente in un nuovo polmone culturale, dove l’arte si incontra con la città e la pratica teatrale diventa uno strumento – costante e vitale – di formazione e costruzione di futuro per i ragazzi del Rione, che dalle tavole del palcoscenico e con una voce finalmente ascoltata, si allontanano dal rischio di diventare facile carne da macello per le mafie.

La compagnia partenopea è ormai una delle esperienze più interessanti del teatro nazionale, ma a partire da un radicamento nel territorio a cui non hanno nessuna intenzione di rinunciare. Ne abbiamo parlato con il referente artistico Emanuele D’Errico, per imparare, da chi fa del teatro uno strumento anche militante, quanto dal palcoscenico possa nascere un’alternativa alle mafie, una concreta possibilità di antimafia praticata.

Puteca Celidonia, chi siete? Da quali esperienze nasce la compagnia?

Ci siamo incontrati tutti al Teatro Stabile di Napoli, dove ci siamo diplomati come attori nel 2018. Al termine della scuola abbiamo deciso subito di provare a costruire una compagnia. Poi abbiamo preso in gestione due spazi confiscati alla camorra nel Rione Sanità, e abbiamo iniziato una attività di formazione gratuita all’interno di quegli spazi, rivolta ai bambini del territorio. Questo è l’incipit, l’inizio del racconto.

Chi lavora con le narrazioni e con l’arte lo fa nella convinzione che abbia un concreto effetto sulla realtà. Qual è il compito dell’arte nella lotta alla mafia?

Credo che la funzione dell’arte sia la stessa, rispetto alla lotta alle mafie, del concetto di sociale e di politico. L’arte è sempre tutto questo, ma il concetto sicuramente prende una forza specifica quando viene agito un certo tipo di contesti. Perché diventa un’opportunità, un mezzo più potente di altri per riuscire a scavare dentro l’umano. Secondo me quella di “teatro sociale” è una definizione impropria, approssimativa: è sempre un impegno sociale, è una qualità che sta alla base della sua esistenza. Il teatro nasce dalla Grecia antica come spazio sociale, attraverso cui qualcuno si occupa della società, della politica, della cosa pubblica. Quando ci chiedono se facciamo teatro sociale, rispondo che facciamo teatro, facciamo arte e cerchiamo di farlo anche nel carcere, anche con i ragazzini della Sanità, anche con non professionisti. Cerchiamo di farlo nel migliore dei modi possibili perché anche quella con i ragazzi diventa un’opera d’arte.

Venite da una formazione accademica tradizionale e adesso vi confrontate con una dimensione specifica dal punto di vista sia del territorio sia del tipo di persone che incontrate. Cosa hai imparato, se hai imparato qualcosa, o comunque cos’è il teatro visto da una parte e dall’altra?

È rigenerativo. A volte, se ti chiudi nell’ambiente del teatro e ti alimenti solo di quel mondo, c’è il rischio di cadere nell’autoconsumo. Ci aiuta a ricordarci che il teatro si occupa anche di quelle persone, parla di e con loro. C’è una differenza che non dovrebbe esserci. Lo spettacolo arrivato sul palcoscenico è la forma finale di un processo creativo e artistico. È l’ultima curva di un lungo viaggio, durante il quale è essenziale incontrare tutti i bambini, tutti i detenuti, tutte le donne e gli uomini, i cittadini e gli abitanti della Sanità. Era lo slogan di Paolo Grassi: “un teatro che arrivi a tutti e per tutti”. Però non credo significhi una semplificazione. L’arte è una forma anche complessa, che però si deve occupare del pubblico, cioè delle persone. Ecco, i nostri laboratori sono un continuo ricordarci che non lo facciamo perché è bella la scena, la luce, l’estetica. Ogni spettacolo è un’operazione impegnativa, faticosa, articolata, che si radica in un senso, a volte anche non razionale, anche un istinto.

Lavorate in spazi confiscati alla camorra. Come vedete la situazione dei beni confiscati e come pensate che debbano essere davvero “restituiti alla comunità”, come vuole la legge?

Credo sia molto forte il senso dietro il concetto di questa restituzione di spazi impropriamente acquisiti dalla malavita e restituiti alla cittadinanza. Un aspetto su cui noi abbiamo puntato molto. Nei nostri spazi si svolgono una serie di attività, non solo il teatro. Ogni anno incrementiamo con nuovi laboratori: c’è scenografia, realizzazione del costume teatrale, rivolti a tutte le fasce d’età dai 6 fino ai 90 anni.
In molti di questi quartieri in strada si è abituati a vivere in un certo tipo di situazione. Allora credo che più di tutto conta l’esempio che ci sia altro, che esista qualcos’altro.

Il sogno è che questi spazi in futuro vengano gestiti da chi adesso li frequenta. Che se ne riapproprino come polo culturale, artistico di accoglienza, di scambio di tante cose. Però – e posso parlare solo per la Campania – pur se ci sono tanti spazi virtuosi, spesso l’istituzione non aiuta, si limita di deresponsabilizzarsi affidandoti lo spazio. Ma non basta. Noi abbiamo dovuto fare dei lavori di ristrutturazione per parecchie migliaia di euro, risolvere problemi strutturali, sostenere le spese. Insomma credo ci vorrebbe molta più collaborazione, che dovrebbe – a suo vantaggio – alimentare le realtà già attive, cercare in tutti i modi di non far spegnere quel fuoco. Se servisse ad adempiere ad alcune richieste all’ordine del giorno, personalmente sarei felice di condividere i risultati e i progressi della nostra attività con il mio Comune, la mia municipalità, la mia regione, per dimostrare quanto gli spazi confiscati possono diventare molto più remunerati da un punto di vista culturale.

Conoscete da quale storia arrivano quelli che adesso sono i vostri spazi?

Non lo sappiamo, perché le istituzioni non te la comunicano, per evitare di entrare in contatti con la precedente proprietà, però ci è successo che uno, probabilmente l’ex proprietario, sia venuto da noi. Ci ha salutato e ha detto: “sono contento, ma me li riprenderò”. Credo che fossero spazi affittati ai migranti, penso senza permesso di soggiorno, famiglie molto numerose in piccolissimi spazi. Di sicuro le sfruttavano come basi, abbiamo trovato i doppi fondi nei muri. E sappiamo che, prima che lo vivessimo, quello su cui affacciamo era un vicolo di spaccio. Così ci è stato raccontato da tutti. Le stesse persone oggi ci dicono: prima facevamo il giro lungo per non passare, perché avevamo paura, da quando ci siete voi passiamo di qua. Oggi c’è una libreria a cielo aperto, opere di street art. Il vicolo ha preso colore, vita.

Lavorate molto coi più giovani: come?

Ai ragazzi cerchiamo di trasmettere il teatro come una disciplina. Come fare karate: chi lo fa due volte a settimana difficilmente ambisce alle Olimpiadi, però si allena seriamente. Poi certo, è anche un’opportunità di gioco, di svago, di alterità dalla quotidianità, ma anche un gioco molto serio.

Qual è la realtà della loro sensibilità civica e del mondo che li circonda?

Nella Sanità incontriamo un sacco di ragazzini pieni di una voglia, di un’energia di un’educazione, incredibili. In parte è dovuto al percorso lungo che molti di loro hanno fatto con noi da quando sono piccoli, in parte alla presenza di tanti genitori, tante mamme, soprattutto, che spesso non hanno una figura maschile a fianco. Sono situazioni complesse, però molte vogliono che i figli non prendano strade sbagliate, che possano scoprire anche un’altra prospettiva. C’è stato un ragazzo che non è andato a scuola per due mesi dopo l’arresto del padre. Non faceva nulla, non usciva neanche di casa, salvo per venire al corso di teatro. È un segnale che ci percepiva come un luogo sicuro.

Portate i vostri laboratori anche all’Istituto Penale per Minorenni di Nisida: ci raccontate quella esperienza?

Anche il carcere è arrivato un po’ per caso. Il direttore del carcere ha visto un nostro video sui social, su un evento nel vicolo, e ci ha chiamato a tenere un corso. Oggi sono quattro anni che lavoriamo in carcere. È un’esperienza molto arricchente, stimolante, ma anche molto frustrante. Per molti ragazzi è un orgoglio stare a Nisida, un rito di passaggio necessario per la crescita. Per cui è difficile far capire il senso del teatro, ai ragazzi, ma anche ai dirigenti, agli educatori, a volte ci si scontra anche contro un’idea sbagliata di teatro, come “il momento per metter su la recita di Eduardo De Filippo”, ma il direttore Gianluca Guida per fortuna è molto attento, si fida di noi e del percorso un po’ diverso rispetto a quello che si è sempre fatto, in passato e in tante altre carceri.

Come dicevo, andare in scena è il termine ultimo di un percorso, è molto più importante quello che viene prima. Cerchiamo di fare un lavoro di consapevolezza del corpo di lavoro, di strumento della voce, di ricerca, di sblocco drammaturgico di creatività. È molto importante che i ragazzi lavorino stimolando la loro creatività. Lì dentro c’è una potenza espressiva pazzesca, ma è molto faticoso perché c’è un continuo ricambio, è complicato portare avanti un gruppo per un anno e non farsi scoraggiare dalla continua sensazione di ricominciare da capo.

Però il direttore due anni fa mi ha chiesto di tenere un corso di drammaturgia, oltre al corso di teatro. Proponeva un corso su Eduardo De Filippo e io inizialmente avevo detto di no, poi la professoressa Anna Maria Sapienza dell’Università degli Studi di Salerno, intervenuta a darmi una mano come tutor, mi ha fatto cambiare idea. Volevamo scrivere una drammaturgia. Non ci siamo riusciti, ma da questo fallimento è nato “le voci di dentro” una serie podcast che si trova su raiplay. Sei episodi che nascono proprio dai ragazzi, scritti con loro e interpretati da loro.

Se vuoi sapere veramente cosa significa stare dentro Nisida, ti consiglio di ascoltare la serie. Ci sono tutte le frustrazioni, le fatiche, ma anche il riscontro dei ragazzi. All’interno dell’Istituto penale minorile di Nisida il teatro diventa l’opportunità di un viaggio verso la libertà. E la possibilità di capire che ci sono altre opportunità, altre strade. Ma con professionalità. Conta di più riconoscerla come un’opportunità altra, anche remunerativa, sapere che può diventare un lavoro e lo è a tutti gli effetti. 

Quale tipo di racconto viene fuori, quando sono i ragazzi a prendere parola? 

Tanta materia umana, nelle fragilità, nelle frustrazioni, nelle semplicità di pensieri di ragazzi che hanno 16-18 anni e sono cresciuti con un’idea difficile da sradicare. Se io domani ti dico “guarda che tutto quello che tu hai imparato, l’educazione che ti è stata data, il contesto in cui sei cresciuto era il male” rendi impossibile lavorare sulla loro consapevolezza. Nessuno potrebbe accettarlo, perché i propri genitori sono il primo esempio che tutti quanti noi abbiamo davanti agli occhi, e spesso a loro volta sono cresciuti così. Quindi alla base della nostra attività c’è un lavoro radicale. Il carcere è una buona opportunità di piccolissimi semi, ma non pretende di cambiare nessuno, è impossibile.

Forse tutto il sistema carcere in qualche anno può riuscire a innestare nel ragazzo un cambiamento così profondo, ma occorre mostrare e fare accettare quanto tutto quello che il ragazzo ha imparato fino a quel momento è sbagliato. Io racconto sempre di A. che al corso di drammaturgia, parlando di suo fratello, dice: “mi ha insegnato tutto, a stare al mondo: non mi facevo rispettare, se camminavo per strada e qualcuno mi guardava non gli dicevo niente, se qualcuno per sbaglio mi urtava lo affrontavo”. Gli ho risposto: “t’ha inguaiato” e ridiamo. Lì per lì sembrava una battuta, però poi dopo ci ho pensato. Lui era sincero, quando mi diceva che gli aveva insegnato qualcosa, perché per lui stare al mondo significa questo.

Io ci ho messo tre anni a capire l’approccio con cui avere a che fare con loro: se fai finta di essere uno di loro ti sgamano dopo tre settimane, ma è normale, all’inizio speri di empatizzare, vuoi farti sentire un fratello, ma non funziona. Solo nel momento in cui ho capito che potevo portare loro un altro punto di vista, il mio di ragazzo medio borghese cresciuto in un altro tipo di quartiere che però si è messo a studiare, continua a lavorare tanto per portare quello che posso. E infatti poi hanno iniziato a chiamarmi ‘o professore. Non lo sono per niente, però il loro punto di vista era questo, un riconoscimento di valore perché gli sto insegnando qualcosa. Non posso insegnare cosa è giusto e cosa sbagliato, però posso dimostrare che lasciarsi modificare dall’altro sia un passaggio fondamentale per poter stare in relazione.

La scrittura di una storia dopo poche lezioni è fallita perché loro si scocciano, volevano parlare di loro. Così abbiamo iniziato a lavorare su di loro, ma non sulla loro storia perché non mi interessa strumentalizzare gli accadimenti, ma su di loro come persone, coi loro limiti, e desideri.

Avete dato vita a un festival in strada, nel rione Sanità: come ha reagito la città e cosa può fare, in quel particolare contesto, l’arte nella strada?

Nella nostra festa dai balconi, il teatro diventa grido politico, un modo di affacciarsi, entrare proprio dentro le case delle persone, coinvolgerle in un unico involucro. Non uno spazio asettico per fare un’attività, ma un sistema che comprende a 360 gradi il quartiere e le persone, in un luogo come la Sanità, dove molto spesso i bambini hanno la strada come parco giochi.

La risonanza è stata pazzesca: l’ultimo anno sono venute oltre 600 persone, molte sono dovute andar via perché non riuscivano a vedere niente. Il vicolo era pieno, sia di molte persone del territorio, sia di quelle che da fuori venivano nel Rione Sanità per vedere lo spettacolo. Il che è già di per sé un racconto. Noi recitiamo da dentro le case delle persone. C’è stata una bambina i cui genitori in lacrime ci vennero a dire: “è un miracolo: non è possibile, nostra figlia a casa a stento parla, qui ha recitato da un balcone davanti a 300 persone”; è il miracolo del fare cultura.

Farlo in strada significa davvero che lo spettacolo si fa insieme. Lo abbiamo fatto in molti modi: quattro sere, quattro venerdì al mese in cui venivano attori famosi, artisti, cantanti: Bennato, Maldestro, artisti di vario tipo che facevano il concerto dai balconi e i bambini facevano delle piccole scene che avevano costruito tra i balconi giù e su. L’anno successivo è arrivato il covid e quindi il progetto Dimenticati a distanza. Quando l’abbiamo ripreso dopo il covid e si è strutturato in un modo più vicino allo spettacolo, con attori e bambini guidati da un’unica regia e a conclusione un concerto di Anastasio. Da allora sta diventando sempre meno festa e più spettacolo, perché fare teatro anche in strada ti riconcilia con il rapporto con le persone, ti fa ricordare che a teatro ci sono le persone, tutto si fa per loro, con loro, per tutti.

Come entrano queste esperienze nella vostra attività come compagnia?

Tutto questo poi è implicitamente dentro i lavori. Quando torni in sala prove ti modifica, modifica il modo di fare regia, di scrivere e pensare. Noi produciamo poco, perché per me uno spettacolo è un figlio, e prima di metterlo al mondo mi assicuro di poterlo sostenere. Abbiamo prodotto due lavori in 6 anni. L’ultimo, “Felicissima jurnata” ha debuttato l’anno scorso a Castrovillari e ha avuto un bel successo, e due nomination agli UBU.  L’anno prossimo arriva al Teatro Elfo Puccini di Milano, alla Corte Ospitale in stagione, al Vascello di Roma e al Teatro Nuovo di Napoli. Piazze importanti. Stiamo andando lentamente, ma l’importante per me è non lasciare che questi lavori possano morire come se niente fosse.

Ci è capitato di dire di no anche a dei progetti molto importanti perché l’arte non può seguire le logiche dei bandi. Non puoi fare uno spettacolo l’anno, devi avere il tempo di aver capito che l’hai fatto, cosa sta succedendo. Il nostro lavoro nasce dal Rione Sanità, abbiamo fatto interviste alle persone, siamo entrati dentro le case e abbiamo raccolto più di 10 ore di interviste, le abbiamo mescolate con Beckett e abbiamo fatto una narrazione del Rione Sanità. Ma è uno spettacolo che utilizza il rione come contesto per raccontare dell’essere umano, del senso di solitudine e molto altro.

A che punto siamo con il sostegno delle istituzioni? Sentite sostenuto il vostro lavoro? Quali buone pratiche si potrebbero ancora attuare?

Noi siamo fortunati perché siamo entrati nel flusso nel Fondo Unico dello Spettacolo. Quindi siamo riconosciuti dal ministero, ma è abbastanza paradossale: siamo stati riconosciuti prima dal ministero e poi dalla regione, mentre dal comune ancora dobbiamo essere riconosciuti. Forse una buona pratica è che il sistema dovrebbe funzionare al contrario: il mio primo interlocutore dovrebbe essere la municipalità, invece a volte sembra che più l’istruzione sia grande e più, paradossalmente, sia facile entrarci in contatto, almeno rispetto a noi.

L’anno prossimo saremo finalmente riconosciuti anche alla regione (ci vogliono due anni di raccolta materiale, burocrazia che ad esempio nella domanda per il ministero non c’è. Per la regione, negli ultimi due anni noi eravamo degli amatoriali. Quello su cui rifletto è: perché non partire da quello che già funziona e cercare di sostenere ciò che c’è, prima di disperdere i sostegni in un tentativo talvolta disperato di far nascere nuove cose senza una radice nel territorio? Perché non fare in modo che le realtà esistenti non muoiano, non si disperdano e poi coprire i buchi?