“In tanti volevano e vogliono la mia morte, politici e mafiosi”. Mimmo Rubio, giornalista e cronista campano, nato e cresciuto ad Arzano, comune di Napoli, incastonato tra Scampia, Secondigliano, Afragola, inizia a fare giornalismo in questa realtà martoriata dalla camorra. Fin da giovanissimo vive le minacce dei clan sulla sua pelle e su quella dei suoi familiari che si oppongono al pizzo. Dagli anni ‘90 si occupa della collusione fra potere politico e criminale nel territorio napoletano.
Come ha inizio la sua carriera di giornalista antimafia?
Cresco in una famiglia borghese, di commercianti onesti, terrorizzati e messi sotto scacco dalla camorra. Sono stato ragazzino in un ambiente dove c’era una grande sofferenza per questa situazione, eravamo terrorizzati. I miei genitori non cedettero alla richiesta dei clan di pagare il pizzo, subimmo diverse minacce, atti vandalici, anche un’ipotesi di sequestro. Li è nato il mio spirito reattivo, è scattata la mia ribellione. Mio padre mi ha sempre detto: resistiamo perché una volta che fai quello che vogliono loro, sei morto. Inizio a fare giornalismo nel 1992 spinto dal coraggio giovanile e dall’aver sempre tenuto lo sguardo su Napoli, sul mio territorio, sulla mia Arzano, da un lato considerata una Brianza del sud, zona di eccellenza industriale, della sartoria made in Italy, dall’altro infettata nel tessuto economico e sociale dalla mafia. La mia prima collaborazione fu con il Giornale di Napoli piccolo quotidiano, che aveva però, una ribattuta quotidiana, quindi molto impegnativo ma che mi dava grande soddisfazione. Diciamo che le mie strade sono state: antimafia per missione, perché avevo provato cosa volesse dire essere nel mirino della camorra, ero avverso al crimine, all’antistato, sempre con in testa l’idea inculcatami da papà che se cedi sei morto, e giornalismo perché lo avevo già dentro di me, una passione innata.
Da quando vive sotto scorta e da chi la protegge lo Stato?
Dal 2020, era ottobre. Ad oggi sono quattro anni che ho la protezione fissa dei carabinieri, prima, dal 2006, avevo la vigilanza attiva, un presidio di controllo e sorveglianza. In seguito alle innumerevoli minacce che hanno messo in pericolo la mia vita mi hanno dato la scorta dello Stato.
Qual è l’inchiesta che l’ha portata a vivere sotto protezione?
Non è una sola. Le mie inchieste sulla criminalità sono varie nel corso degli anni ‘90. Non ho nemmeno dato un nome a tutte. Nelle zone di Arzano, Scampia, Secondigliano, ho documentato l’influenza del clan egemone in quel periodo, la famiglia Moccia di Afragola. Oggi lì comandano gli scissionisti, reggenti dopo l’ultima guerra di camorra. Mi sono occupato della collusione tra politica locale e camorra a Napoli nord e sud, specialmente nell’ambito degli appalti. Il mio lavoro ha contribuito a far sciogliere il consiglio comunale di Arzano tre volte. Potrei citare l’inchiesta del 2005-2008, fatta per il settimanale Napoli Metropoli, allora ero capo cronista, seguivo il progetto di finanziamento per la costruzione dell’area consortile del cimitero di Arzano, scopro che sotto ci sono gli interessi dei clan che si infiltrano e condizionano gli appalti con la compiacenza della politica locale collusa. Dopo la mia inchiesta i lavori si bloccano, arriva lo Stato a gestire la situazione con l’insediamento della Commissione d’accesso al Comune e io entro nel mirino dei clan e dei politici corrotti.
Quando hanno avuto inizio le minacce mafiose nei suoi confronti?
Partiamo dal 1993 quando durante una seduta dell’assemblea comunale del mio paese, il consigliere comunale mi disse: “Stai attento a non fare la fine di Siani”, poi ritrattò dicendo che non era sua intenzione dire quella frase. Sono susseguite innumerevoli minacce di morte rivolte a me e alla mia famiglia. Poi negli anni, gli episodi intimidatori non si sono mai fermati, tra quelli verbali e gli attacchi fisici. Nel 2005 ho ricevuto buste contenenti proiettili. Nemmeno quando avevo la vigilanza, nel 2006 hanno desistito. I fatti più eclatanti sono stati quelli del 2018 quando il figlio dell’ex sindaco, nella villa comunale, mi diede uno schiaffo. Nello stesso anno, era estate, mi occupavo delle feste nella roccaforte dei clan, quelle con gli spari dei fuochi d’artificio per intenderci, che coinvolgevano i cantanti neomelodici in un giro di riciclaggio di soldi sporchi. Nella notte i camorristi, in sella alle motociclette e scortati da varie auto, verso mezzanotte e 45, organizzarono due cortei notturni sotto casa mia sparando in aria con le pistole, le famose stese. Il 2 luglio 2018, sempre verso l’una di notte, una moto si fermò nelle vicinanze della mia abitazione e i malavitosi mi lanciarono due bombe sul balcone. Lì raggiunsi l’apice della sopportazione, tanto che arrivai a dire: “Che aspettate? Che mi debbano ammazzare? Se lo Stato non mi aiuta dopo questo!”. Nel 2020 avevo già la scorta e una vedova di camorra mi urlò: “Devi morire!”, davanti ai miei agenti. Poi non posso dimenticare quando ad Arzano arrivò la pandemia, pieno lockdown, zona rossa, scoppiarono delle rivolte contro le chiusure, proteste plateali, la città era gestita dal viceprefetto. In quella fase, denunciai che le rivolte erano fomentate dalla camorra e dai politici e venni minacciato di morte da un noto esponente della criminalità organizzata, un sorvegliato speciale.
Qualcuno l’ha difesa in queste occasioni?
Sì, tanti. Cito Marilena Natale, collega giornalista, che venne a seguire proprio le proteste delle quali ho appena parlato. Quando il soggetto, pregiudicato, come dicevamo, mi minacciò dicendo “mi sono fatto tanti anni di galera ora me ne farò altri per ammazzarti”, Marilena si mise fisicamente tra me e lui e gli disse: “Tu devi prima passare sul mio cadavere”.
Ad oggi sono 22 i giornalisti italiani che sono sotto protezione per minacce mafiose, perché è così difficile fare questo lavoro di inchiesta?
Siamo appunto in 22 ad oggi a vivere sotto scorta in Italia. Io sono uno dei tanti, altri sono sottoposti a vigilanza. Ricorderei per restare in Campania, nel casertano, i quattro colleghi che vivono scortati per le minacce dei casalesi: Marilena Natale, Roberto Saviano, Rosaria Capacchione e Sandro Ruotolo. C’è, a mio avviso, una grande differenza tra chi di noi è rimasto a vivere e a lavorare nel territorio, come me, Marilena e Sandro, e chi è andato via. Io vivo ad Arzano è difficilissimo, sanno dove sono, sanno come mi muovo, con chi parlo, chi frequento, mi sorvegliano. Non che per gli altri sia più facile e vivano vite migliori, capiamoci, ma è diverso. È complicato per tutti noi, perché le minacce ai giornalisti oggi sono tante, di varie forme e arrivano da più soggetti. Abbiamo anche un osservatorio per questo fenomeno, dove dal 2017, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana assieme allo Stato monitorano i dati. Sarò a Bruxelles la seconda settimana di ottobre (l’intervista è stata realizzata ad ottobre 2024, ndr), proprio per portare un contributo e parlare delle problematiche, non solo di noi 22, ma di tutta la situazione giornalistica italiana, dell’informazione omologata, della persecuzione di alcuni, delle querele temerarie che ci fermano per non farci andare avanti.
Intreccio politica-camorra, oggi è una stagione conclusa?
No non è finita, la politica marcia non dimentica, quando ne avrà l’occasione si vendicherà. Continuo a non farmi intimidire, ma non so se ho più paura della camorra o dei politici. I clan hanno un codice, una sorta di disciplina: rispettano la regola e anche il nemico. I politici sono viscidi perché gli fai saltare i consensi, fanno in modo di isolarti, ti fanno terra bruciata intorno, nel tuo humus, resti completamente solo. I mafiosi vanno in galera, i colletti bianchi sono più pericolosi, ti ritengono responsabile, ti vogliono vedere morto tanto quanto i camorristi. Io credo che ci vorrebbero pene più severe anche per questi soggetti corrotti, ma ho massimo rispetto e piena fiducia nello Stato.
Dove trova la forza per andare avanti?
Ora mi aiuta molto andare nelle scuole a parlare con i ragazzi, mi dà carica e soddisfazione portare il mio esempio. Ma ho avuto anche momenti molto bui. È stato difficile, mi sono trovato solo. Se da un lato, avere la scorta, vuole forse dire che in qualche modo il mio lavoro di giornalista ha inciso, che ho dato fastidio ai criminali, ho fatto un buon servizio alla comunità, assieme allo Stato e alle forze dell’ordine, dall’altro mi ha causato tanta rabbia, tanta sofferenza per questa vita blindata. Mai l’avrei immaginata così. Però sono stati e sono momenti poi la mattina mi sveglio e passano, amo il mio lavoro e ho la coscienza a posto.
Ha mai pensato di fermarsi dopo tutto quello che ha subito?
Mi sono messo spesso in discussione, chiedendomi chi me lo abbia fatto fare. Sicuramente vivo una vita che non è più mia, ho quattro uomini sempre con me che si danno il cambio e sono parte della famiglia ormai, facciamo battute, scherzi per alleviare la tensione, ma è dura. Perdi le persone intorno, è un pericolo avvicinarsi a me anche solo per bere qualcosa in compagnia. Ma io rifarei il mio percorso, combatterei sempre, per far rispettare le regole. Sono stato educato con questi valori e non riuscirei a fare il mio dovere diversamente. Alcuni ci chiamano eroi, ma siamo solo giornalisti che scelgono di fare bene il proprio mestiere, raccontando quello che vedono, informando la società civile sui fatti e io questo continuo a fare.