INTERVISTE SOTTO SCORTA/ “La verità che allontana e fa paura”: Giletti racconta come lo hanno silenziato  

INTERVISTE SOTTO SCORTA/ “La verità che allontana e fa paura”: Giletti racconta come lo hanno silenziato  

«Giletti e Di Matteo stanno scassando la min… Il ministro fa il suo lavoro e loro rompono i c…». Così si era espresso nel 2020 il boss di cosa nostra Filippo Graviano, intercettato nel carcere dell’Aquila. Si riferiva al pubblico ministero Nino Di Matteo e al giornalista Massimo Giletti, che secondo il detenuto stavano ostacolando l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.  

Il mondo era scosso dalla pandemia e il conduttore di “Non è l’Arena”, programma andato in onda su La7 fino al 2023, lavorava a un’inchiesta sui penitenziari italiani. Nelle strutture divampavano le rivolte, con i detenuti che non si sentivano al sicuro dal pericolo Covid. Intanto venivano mandati agli arresti domiciliari 223 condannati per reati di mafia a causa dell’emergenza sanitaria. Per Giletti, «dietro alle scarcerazioni ci doveva essere un accordo sotterraneo per tenere calme le carceri». Dopo le minacce di Graviano, il giornalista è stato messo sotto protezione dallo Stato. Oggi è passato a Rai 3, dove conduce la trasmissione “Lo Stato delle cose”. 

Cosa significa vivere sotto scorta? 

«La scorta ti ricorda ogni giorno che hai un appuntamento con qualcuno che ti vuole eliminare. Il coraggio è non voltare la testa, andare avanti con fatica nonostante il peso che ti porti dentro. E sopportare questa fatica». 

Perché Filippo Graviano ha fatto il tuo nome? 

«Per la battaglia che avevo fatto durante la pandemia sulle scarcerazioni dei boss mafiosi, avvenute sottotraccia. C’erano state grandi rivolte nelle carceri per il sovraffollamento e la paura del Covid, con danni da milioni di euro. Mentre in Germania mandavano a casa i ladri di polli per alleggerire i penitenziari, in Italia siamo partiti dai piani alti delle organizzazioni criminali». 

Quali casi avevi seguito? 

«Andammo a fondo con il boss dei casalesi Pasquale Zagaria, che era stato mandato ai domiciliari. E poi con personaggi legati a cosa nostra, alla camorra, alla ‘ndrangheta. Fino a costringere Francesco Basentini, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alle dimissioni. Anche Bonafede, che era ministro della Giustizia, si salvò dalla sfiducia solo grazie ai voti di Renzi». 

Poi hai ricevuto una querela per diffamazione da Giuseppe Graviano. Cosa è successo? 

«Un altro tentativo di intimidazione. Dissi che, siccome le mogli dei fratelli Graviano erano rimaste incinte mentre i mariti erano rinchiusi al 41 bis, forse era stato lo Spirito Santo. Sono mesi che non so più nulla, le indagini stanno prendendo molto tempo. Mi lascia perplesso che la magistratura non abbia archiviato. Sembra il mondo al contrario». 

In un’intercettazione del 2021, anche l’ex senatore Marcello Dell’Utri fece il tuo nome. 

«Sì, voleva che qualcuno intervenisse per chiudere il mio programma, “Non è l’Arena”. Era infastidito dal lavoro che stavo facendo sulla trattativa tra Stato e mafia, sul grande mistero della mancata perquisizione del nascondiglio di Totò Riina, sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano. Dell’Utri disse che ero pericoloso, perché con la mia trasmissione potevo influenzare i giudici». 

Perché il tuo programma è stato chiuso? 

«Si è detto che costava troppo, ma di solito i programmi si chiudono solo quando vanno male. Noi in quel periodo avevamo in media il 6% di share, come il talk show di Giovanni Floris. Io sono stato chiuso, lui no». 

Pochi mesi prima c’era stata la tua intervista a Salvatore Baiardo, il gelataio condannato per favoreggiamento dei fratelli Graviano. Pensi che questo abbia avuto un ruolo nella chiusura del programma?  

«Hanno raccontato che avevo pagato in nero Baiardo. Un famoso quotidiano scrisse che ero indagato dalla procura di Firenze. Era tutto falso. Per sporcarti, per toglierti credibilità, la mafia ti butta nell’immondizia con le notizie false. Volevano screditarmi, ma erano solo bugie». 

Com’è cambiata la tua carriera? 

«Ho pagato un dazio altissimo, sono stato fermo un anno e mezzo. Per fortuna ne sono uscito, qualcuno ha avuto ancora fiducia in me, ma mi si era fatta terra bruciata intorno. Non avevo più voce ed ero stato isolato. E quando sei isolato sei più facile da eliminare. E questo non si può perdonare, oltre al fatto di aver mandato a casa trenta ragazzi che lavoravano con me. Così, di punto in bianco». 

C’è ancora spazio per il giornalismo antimafia

«Parlare di mafia non conviene a nessuno. Ringrazio chi ha il coraggio di portare avanti la lotta alle organizzazioni criminali. Però devo contraddire Falcone. Quando disse che la mafia è un fenomeno umano, con un inizio e una fine, forse non si rendeva conto di quanto fosse invischiata con il potere politico ed economico. E finché avrà questo rapporto con politica e finanza, la mafia non la puoi scardinare. È lei che scardina te».