“Noi abbiamo raccontato la storia di una persona che non ce l’ha fatta, ma questo film è dedicato a tutte quelle persone che invece ce l’hanno fatta, ma portano le cicatrici tutta la vita”. Per questo Roberto Proia, sceneggiatore, ha voluto dar voce ad Andrea Spezzacatena, che aveva appena compiuto quindici anni quando, nel 2012, si è suicidato. L’opinione pubblica lo conosce come “Il ragazzo dai pantaloni rosa”. Lo stesso titolo del film – uscito il 7 novembre – che racconta la sua storia. La mamma, Teresa Manes – sullo schermo interpretata da Claudia Pandolfi – ha scoperto solo dopo la sua morte che sono bastati un paio di pantaloni usciti stinti da un lavaggio sbagliato in lavatrice a fare di Andrea il bersaglio del bullismo dei coetanei, e di una persecuzione fatta di insulti e di dileggio sui social. Abbiamo incontrato lo sceneggiatore, Roberto Proia, per riflettere sul bullismo a partire da un film pieno di cura e vitale, come Andrea, la cui storia può diventare, oggi più che mai, una guida e un insegnamento, per chi oggi subisce bullismo ma anche – forse soprattutto, per chi lo commette.
Perché fare un film come questo?
Purtroppo ce lo sta dicendo anche la cronaca, proprio nei giorni in cui stavamo lanciando il film due ragazzi si sono suicidati per bullismo e cyberbullismo. Una sfortunatissima coincidenza, ma allo stesso tempo risponde a questa domanda: vuole dare uno strumento a dei ragazzi che sembrano non averne tanti a disposizione. Non soltanto ai ragazzi che vengono bullizzati, cui è importantissimo dire che non sono soli, ma anche ai bulli, agli insegnanti e ai presidi – e alle famiglie, anche se in questo caso la scuola è il primo fronte su cui si combatte questa battaglia, perché i ragazzi a casa riescono a mascherare molto bene. Andrea in questo senso era esemplare, non ha fatto trapelare nulla alla madre o al padre, con cui aveva un ottimo rapporto, si era fatto carico di più di quanto potesse sopportare e non ce l’ha fatta. La scuola invece non può essere distratta da quel punto di vista. A Gallipoli, due giorni dopo la proiezione del film per le scuole, due studenti si sono fatti forza e sono andati a denunciare. Questo è il circolo virtuoso che speriamo di innestare, con un film che grazie al cielo stanno vedendo centinaia di migliaia di persone.
Da sceneggiatore, come si racconta una storia così?
Ho cercato di mediare la storia di Andrea con l’estetica e le dinamiche narrative. Fare un film poco accessibile al pubblico sarebbe stato un fallimento, perché il nostro scopo è farlo vedere al maggior numero di persone possibile, che nessuno venga respinto, anzi venga accolto. Allo stesso tempo, dobbiamo mantenere un certo equilibrio con la storia vera. La grande sfida da sceneggiatore è stata quella di ipotizzare una ragione per cui Andrea non ha detto nulla, perché a livello cinematografico “mancava un pezzo”, che anche Teresa Manes, la mamma, non riusciva a darmi perché non lo sapeva neanche lei. Da sceneggiatore, ho ipotizzato che fosse una presa eccessiva di responsabilità sulle sue spalle: per il fratello minore che amava tantissimo e che voleva proteggere, per i genitori, Andrea si è fatto carico di tutto convinto di riuscire a gestirla, quando non ci è più riuscito è crollato.
Quando poi ho esposto questa tesi alla mamma del ragazzo, lei mi ha spiegato che è molto plausibile che sia andata così. Serviva anche un escamotage narrativo per far sì che il film non fosse tristissimo. Volevamo, e lo è, un film in cui c’è una famiglia felice, un bel ragazzino felice, molto in gamba, e lo spettatore spera a lungo che il finale non sia quello che già conosce. Poi c’è la discesa agli inferi. Così ho voluto introdurre la voce fuori campo, già usata, ma sempre per personaggi di finzione, qui parlavamo invece di una persona reale. La voce narrante mi è servita per dare leggerezza, infatti fa delle battute, scherza. Nell’ultimo atto la voce diventa quella della madre, e in questo momento capiamo che è stata la madre a guidarci per tutto il film. Questo rende l’escamotage narrativo meno artificiale e più reale ed è anche un bel colpo emotivo.
Sì e anche una scelta simbolica importante, che di fatto ridà voce ad Andrea, la voce che manca nel racconto realistico. Il film è costruito soprattutto su quello che accade nel silenzio di tutti…
Esatto. Non solamente di Andrea. È un enorme paradosso narrativo. Andrea è il deus ex machina della sua morte perché se Andrea avesse potuto, avrebbe trovato il modo di parlare – e questo è il grande messaggio che noi vogliamo dare, motivo per cui quei ragazzi che hanno denunciato hanno il mio plauso – e probabilmente sarebbe ancora vivo. E questo vale per tantissimi altri ragazzi che decidono di farla finita senza confrontarsi con qualcuno perché pensano non ci sia speranza, nessuno li possa aiutare. Il film cerca di scardinare l’assioma.
Mi sembra che sia l’isolamento a portare a questo inesorabile cadere diffuso. Forse è un’altra delle cose che rende difficile poterlo riconoscere a chi sta intorno?
Per questo non ho voluto tratteggiare una figura di bullo senza speranza. Attraverso sguardi fragili, anche soltanto accennati, che che si possono intravedere nel film noi raccontiamo un bullo che ha delle fragilità. Senza essere didascalici – perché la cosa che odio di più sono i film che ti dicono cosa devi pensare – noi abbiamo fatto una fotografia e poi ognuno pensa quello che vuole. Ma nel film, la pressione che il bullo stesso sente lui la esercita, reagisce in quel modo sbagliato provocando quello che ha provocato. Non lo sto assolvendo, sono però consapevole che il bullo superficiale, vedendo un film del genere, che non gli fa capire dove sbaglia, gli fa sentire dove sbaglia (sono le cose molto diverse) ha un’impressione molto più forte. Succede quando ti arriva dal sentire anziché dal capire.
L’obiettivo è che anche il bullo si faccia delle domande. Il bullismo è strisciante e ripetuto, ed è la ripetizione che fa più male, e fa sentire la vittima in colpa perché non ha saputo fronteggiarlo. Come se ci fosse una collusione tra la vittima e il bullo. Prendi questo caso: Andrea avrebbe potuto allontanarsi da Christian, ma gli mancava. Un classico caso di sindrome di Stoccolma. Non c’è nulla tra Christian e Andrea, ma hanno quattordici anni, un’età in cui non hai contezza esatta di cosa vuoi e cerchi l’attenzione di chi ti fa male.
Claudia Pandolfi ha detto di essersi commossa per le storie che le persone stanno raccontando. Tu che lo stai presentando in giro per l’Italia che che fotografia ne hai?
C’è un vaso di Pandora che andava scoperchiato e ormai non si chiude più. Al Giffoni Film Festival tantissimi ragazzi si sono avvicinati al microfono per raccontarci, in lacrime, che hanno pensato di ammazzarsi o sono sopravvissuti per miracolo, e ora sfidano a testa alta i loro bulli e ne parlano pubblicamente con un microfono in mano. Claudia, che è una persona particolarmente emotiva, è scoppiata in lacrime, è scesa ad abbracciare i ragazzi, perché è stato un momento incredibile. Ci siamo resi conto che non avevamo fatto un film ma qualcosa di diverso, un’esperienza. A novembre abbiamo fatto un evento con le scuole di tutta Italia e ci siamo resi conto di questo: i ragazzi avevano bisogno che qualcuno tendesse loro una mano. Gli esercenti ci dicono che le famiglie portano i figli di 10, 11 e 12 anni a vederlo, per cominciare un dibattito, ed è una cosa bellissima, perché è a quell’età che si forma la vittima e anche il bullo. Questo film ha una valenza pedagogica importante, perché una pellicola che tratti del suicidio di un minore dovuto a bullismo e cyberbullismo non c’è, qualcosa andava fatto.
A Roma invece alcuni alcuni ragazzi hanno reagito gridando insulti omofobi. Che effetto vi ha fatto?
Sì, è stato molto molto spiacevole, ma ha confermato quanto sia necessario un film di questo tipo. Certo, sono stati 10 ragazzi su 650, però sono una minoranza molto dannosa. E anche solo l’idea che non ci sia stato un modo di disinnescare questi 10 è eloquente. Quello che è successo ci deve dire che adesso girarsi dall’altra parte non è più un’opzione. Quindi io sono contento che sia successo, ha dato esattamente la dimensione del problema.
Ti sei spiegato perché è avvenuto?
Sono bastati i pantaloni rosa e il fatto che Andrea fosse un ragazzino sensibile. Tutti siamo passati per una fascinazione. Peraltro anche Christian, il bullo, non era indifferente ad Andrea. Aveva bisogno del suo pubblico e per questo si è avvicinato. C’è una scena in cui Andrea e Christian si abbracciano e uno dei ragazzi lo guarda male. A quel punto sviluppa un distacco e decide di fare il bullo. Christian prova un’amicizia verso Andrea, ma questo lo mette in difficoltà col suo status.
Fai dire ad Andrea: “Non c’è collante migliore della disperazione di due adolescenti”. Vedi una generazione disperata?
Io posso raccontare soltanto la mia, ed è una generazione che a me sembrava disperata ma oggi mi sembra favolistica, perché non avevamo tutti questi strumenti di offesa. C’è un solo momento in cui ho voluto fare la lezioncina, in cui Andrea dice: “quando sei adolescente tu pensi che sarà così per sempre, invece non è così”, o quando la tecnologia che ti segue dappertutto, e dice “sarei stato sempre quella cosa lì”. Sono i piccoli moniti e i piccoli consigli che il film si sente di dare. Però dice anche che Christian nel frattempo è ingrassato, è solo. Quindi è vero, purtroppo, che bisogna solo superare quella fase. Noi volevamo far sentire vicinanza a questi ragazzi.
Andrea appare come un giovane adulto, lucido, misurato, equilibrato. Rivendica il diritto di essere bambino quando sembra aver già deciso di morire. Qual è il carico di responsabilità che noi adulti affidiamo ai ragazzi?
Ho voluto rappresentare quante volte succede che i figli siano i genitori dei loro genitori. Quando i suoi si lasciano, Andrea pensa a Daniele, suo fratello, fa vedere che è tutto a posto, rassicura i genitori che infatti lo guardano come fosse un alieno. È una scena mai avvenuta ma Teresa mi ha detto “è come se tu lo conoscessi. Perché avrebbe fatto esattamente così”. Quindi sì, il problema è che ci sono anche bambini che crescono troppo rapidamente, si fanno carico di cose che non gli competono. Spesso succede che i nostri genitori ci trasformano in adulti troppo presto. Da un certo punto di vista vogliono farti restare bambino fino ai quarant’anni ma dall’altro ti buttano addosso situazioni che non sai gestire.
Cosa dovrebbe fare un genitore?
Claudia Pandolfi ha detto che noi possiamo fare veramente poco come genitori per aiutare i nostri figli contro il bullismo, se non andare a denunciare, cosa auspicabile perché ti garantisco che se il bullo di turno si becca una denuncia della polizia, si dà una calmata, lo so perché conosco chi ci sta passando. Forse non si può fare molto per la vittima, in famiglia, ma quando sei il genitore di un bullo per loro puoi fare tanto, invece. Puoi educare tuo figlio al rispetto. Per questo sono felice che vadano a vederlo i bambini di 10 anni, è un età in cui hai già gli strumenti per poter essere instradato in un’ottica di accoglienza, di tolleranza, di non discriminazione.
E le scuole?
Ci sono già molte scuole che hanno l’osservatorio per il bullismo all’interno, ad esempio. Ma poi ci sono casi in cui un ragazzo che aveva subito bullismo viene ignorato, ed è quello che non deve succedere. Denunciare è difficilissimo, ma non dovrebbe essercene bisogno perché dovresti essere in grado di vedere in classe quello che accade, l’insegnante ha una responsabilità enorme, lo capisco, però appunto è il primo fronte sul quale combattere. Quando i ragazzi trovano la forza di denunciare deve esserci una risposta vera, per fermare ogni escalation.
In una scena che avete immaginato, rendete evidente come la mamma non ha nessun problema a farlo giocare con quello che potrebbe essere. C’è omofobia, transfobia e discriminazione in una generazione cresciuta in una società dove l’omosessualità o le questioni di genere sono parte della quotidianità piuttosto che nei loro genitori?
Teresa non voleva essere rappresentativa di tutte le madri, ho inserito quella scena dopo averla sentita dire: “Ho fatto tanti errori con mio figlio, fargli indossare i pantaloni rosa non lo è stato”. Ho ipotizzato una madre pura, giocosa, che quando i pantaloni diventano rosa non gli dice di non metterli, dice solo “non devi farlo per forza se ti prendono in giro”. Io sono sicuro che la maggior parte dei ragazzi non abbia problemi da quel punto di vista. Bisogna lavorare su quella minoranza talmente aggressiva che può uccidere.
Ci sono una serie di dinamiche di bullismo che passano inevitabilmente solo attraverso i social, per cui secondo te come si fa veramente a contrastare gli atti di bullismo attraverso quel mezzo?
Purtroppo non essendo un esperto faccio fatica, sicuramente servirebbe una regolamentazione. Di certo i social sono una piattaforma straordinaria per poter diffondere odio. Non ho gli strumenti per suggerire una soluzione, tutt’al più li ho per sottolineare un pericolo.
Come si guarda questo fenomeno da adulti? Cosa hai pensato tu del tempo in cui avevi l’età di Andrea?
Ci ho messo tanto di mio, ad esempio il mio bullo si chiamava Christian ed invecchiando è effettivamente cambiato molto. Ho attinto a ciò che provavo e anche se sono passati seicento anni (ride, ndr) io lo sento vivido come fosse ieri. Ai sopravvissuti restano le cicatrici, ma quantomeno le si può mettere a frutto. Ho ripensato a quello che provavo verso me stesso, nel subire e non alzare la testa, nel senso di colpa, nel senso di inadeguatezza. L’ho riversata in questa sceneggiatura perché era utile a raccontare un mondo che conosco fin troppo bene. Ma le ferite se non altro servono poi a raccontarle anche per gli altri.