“Io considero ogni sequestro come un episodio di guerra. E ogni volta cerco due cose: liberare l’ostaggio e fare un passo che ci avvicini alla fine della guerra”. Questo era l’approccio alla professione e alla vita di Nicola Calipari, direttore dell’Ufficio Ricerca del servizio segreto militare. Questa è stata la regola che lo ha guidato anche quando, il 4 febbraio 2005, si è trovato a doversi occupare della liberazione di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, rapita nella Baghdad in cui era appena caduto il regime di Saddam Hussein. Il mese di quella prigionia, l’angoscia di chi attendeva e il volto segnato della stessa Sgrena nel videomessaggio mandato alla famiglia e al Paese, è una capitolo della storia d’Italia che tutti ricordiamo. Come, forse, il sollievo della sua liberazione, il 4 marzo, funestato però dalla notizia della morte dell’agente Calipari. Quello che pochi, forse, ricordano, è la causa di quella morte: il fuoco amico di un commando americano a pochi passi dall’aereo che avrebbe riportato i due italiani a casa. Un dato accertato ma su cui si estendono, ancora, le innumerevoli ombre di chi, ancora oggi, rifiuta di consegnare una verità storica e giudiziaria. A colmare questo vuoto di memoria arriva oggi un film accurato e di forte impatto, “Il nibbio” di Alessandro Tonda, già vincitore del Nastro d’argento per la legalità: un lavoro per restituire la memoria di un eroe dimenticato, che qui ha il volto di un misurato Claudio Santamaria. Un servitore dello Stato fino all’ultimo istante che si è fatto scudo umano della donna che era chiamato a liberare. Un militare che, alla logica della contrapposizione muscolare, ha preferito la vita, alle dinamiche di potere che vedono gli amici travestiti da nemici ha preferito la trasparenza di chi mantiene la parola data. Tonda ne fa un ritratto esemplare nella sua verità di essere umano, nei suoi rapporti quotidiani con chi si trova a lavorare con lui e non può non riconoscerne la levatura, fino ai portrait con la moglie Rosa e i figli adolescenti. Rileggere questa pagina di storia, significa anche illuminare tutte le complessità di un tempo e di un contesto che non può essere banalizzato. Ne abbiamo parlato con l’attrice Sonia Bergamasco, che nel film di Tonda incarna, con intensità ed empatia, la giornalista Giuliana Sgrena. Una sfida, ci racconta, che le ha permesso di confrontarsi con il rapporto tra memoria e presente e con la responsabilità dell’artista nel dare corpo alla storia.
Non è la prima volta che interpreti figure reali di grande valore simbolico: cosa ha voluto dire calarsi, come interprete, nella realtà?
«Ho interpretato Maria Bergamas, Romana De Gasperi, ma con Giuliana Sgrena è stato diverso: ho avuto la possibilità di essere a contatto con con chi stavo raccontando, perché l’ho incontrata, ci siamo parlate a lungo, mi ha raccontato tutto quello che ricorda di quei giorni. Ha scritto diversi libri che avevo letto. Ma questa volta ho potuto raccontare fatti vissuti in un passato recente da persone che possono ancora raccontarli. Ho sentito quindi il senso di una responsabilità molto grande nei confronti di Giuliana e poi, naturalmente, di Rosa Calipari».
Questo film è un gesto civile, politico: anche il personaggio della figlia di Calipari sceglie di partecipare a una manifestazione per la liberazione di Sgrena perché questo è il suo modo di partecipare concretamente. Dentro il film, ciascuno è chiamato a fare la propria parte. Che tipo di responsabilità ha sentito sul set?
«Io l’ho sentita profondamente e so che è stata sentita con intensità da tutti gli attori coinvolti in questo progetto; era inevitabile, anche perché un’occasione come questa è eccezionale: non capita così spesso di riuscire a raccontare una storia aperta, dolorosa, tragica e avere accanto i testimoni, i protagonisti. Un’occasione da un lato privilegiata e dall’altro molto pericolosa: era facile non essere all’altezza di questo racconto. Dare troppo, oppure dare troppo poco, non essere veramente aderente. Si è tenuta molto alta l’attenzione. Il regista Alessandro Tonda è stato molto attento dando prova di grande attenzione e capacità».
La sfida più grande per te, come interprete, è stata entrare nella psicologia di una prigioniera. Cosa hai imparato da una situazione così estrema?
«Ho dovuto entrare nella mente di una preda, mi viene da dire. E ho capito, in base al racconto della sua esperienza, che qualcosa di Giuliana restava fermo, saldo. Avvertivo una forma di distacco da una sofferenza così acuta, per evitare che i pensieri si muovessero e per non impazzire. Ha detto spesso che questa era una situazione limite in cui bisogna rimanere molto saldi. D’altro canto, però, ho sentito lo spaesamento totale, la percezione di una condizione di preda e quindi di non avere più nessun diritto, nessuna capacità di scegliere, di decidere, di essere nelle mani di qualcun altro. E dunque l’angoscia più profonda, perché ogni giorno, ogni istante non si sa quello che può succedere. Giuliana non sapeva cosa accadesse fuori, dove fosse. Era in un non luogo, in un non tempo, di cui non sapeva niente. Per riuscire a contare i giorni si è inventata un espediente facendo dei nodi a una sciarpa, perché viveva nel buio, le giornate passavano e lei rischiava di perdersi. In una situazione di stress così forte, la mente spesso si distacca».
Quindi, su quali sentimenti hai lavorato?
«Da una parte l’estrema fragilità data dalla situazione oggettiva, la paura, la sofferenza, la mancanza e dall’altra però un nervo, che la teneva solida, perché sentiva l’ingiustizia di quello che stava vivendo: rispetto al fatto di essere sequestrata, ma anche alla sua storia di persona che difendeva i diritti di quella popolazione e se ne era trovata prigioniera. Un’esperienza che hanno attraversato anche altri giornalisti, altre vittime, in quegli e in questi anni. Sono fatti noti».
Ti è stato chiesto anche un lavoro fisico importante perché di fatto reciti da reclusa per gran parte del film, quasi da ferma.
«Si, per me è stato importantissimo anche non girare in Italia. Avremmo potuto girarlo ovunque, ma eravamo in una sorta di non luogo, un Marocco che per noi è diventata la Baghdad che noi volevamo raccontare. Essere in una casa qualunque di una città qualunque del Marocco è stato importante anche perché parte del cortocircuito vissuto dalla Sgrena era dato dalla lingua. Lei capiva poche parole di arabo, l’aveva studiato, ma non sufficientemente per poter parlare e capire veramente quello che le dicevano. E questo la teneva a distanza dai suoi carcerieri».
La narrazione passa anche dal racconto dei corpi, in particolare quelli di due donne che hanno vissuti molto diversi, ma che si incontrano sulle necessità fisiologiche. Trovi che sia una chiave di lettura utile?
«Sì, perché queste donne tra di loro si scontrano. Non si sente nessuna empatia, ed è anzi un momento di forte strappo. Vedendo un’altra donna che le porta gli assorbenti, il dentifricio, quello che serve per un cambio, Sgrena cerca una complicità, un modo per avvicinarsi e invece questo non succede. Forse in qualche modo le allontana ancora di più».
Questo è un film di relazioni, che vuole mettere l’accento sui rapporti tra le persone, sui legami, nonostante stia raccontando una storia di privazione.
«Sì. Quello in cui le chiedono di rivolgersi al suo compagno, Pier Scolari, nell’unico video che le consentono di fare, è un momento straziante: da una parte lei non vuole coinvolgere la persona che le è più vicina in qualcosa che lo farebbe soffrire moltissimo, dall’altra è costretta a farlo. In situazioni simili i legami diventano ancora più sentiti. Giuliana mi raccontava che non potendo scrivere, non avendo la possibilità di fare quello che ha sempre fatto, che desiderava fare, lei immaginava di parlare, di scrivere alla nipote, alle persone che amava. Era un desiderio profondo di riuscire a stabilire dei rapporti».
Essersi trovata, da donna di pace, prigioniera, ha messo in gioco delle contraddizioni. Come raccontarle senza essere manichei? Credo che un interprete cammini su un filo molto sottile.
«Certo, la guerra e quello che viene dopo, in una situazione di città aperta in cui ci sono fazioni che decidono come si mantiene l’ordine, è un non luogo in cui le tensioni possono esplodere in ogni istante. E tutti i giornalisti, tutti i testimoni lo sanno. Chi frequenta quegli spazi, sa che è un luogo in cui tutto è possibile, però ci vanno perché questo è il loro lavoro e il loro compito. Quella che interroga noi tutti è la complessità del quadro politico che tutti i giornalisti sul campo hanno ben presente. Poi c’è da dire che è stata accusata lei, come altri, di essersela cercata. L’ho sentito molte volte, ma lei era lì per fare il suo lavoro come tutti gli altri reporter di guerra facevano e continueranno a fare, per noi, per la comunità».
È questa una storia piena di nemici travestiti da amici e di un confronto tra due visioni che racconta molto questi tempi, dove stanno diventando agibili delle cose che non lo erano più. Hai avuto anche tu l’impressione che parli al presente? Quale pensi che sia il ruolo del cinema nell’aiutare a decodificare i tempi?
«Viviamo in tempi tragici e tragicomici, dove tutto è possibile. Sono saliti al potere in maniera democratica o antidemocratica personaggi che si somigliano tutti nelle varie parti del mondo per la loro imprevedibilità e per il sommesso patto che corre fra di loro, che sembra essere sempre un patto di danari. Viviamo tempi che in parte sono leggibili e in parte potrebbero far implodere ed esplodere conflitti a ogni passo. Penso a come vengono gestite le situazioni più estreme. Pensiamo a Russia e Ucraina, pensiamo a Gaza pensiamo all’Africa e ai conflitti africani di cui si è parlato sempre poco».