“Il giudice e il boss”, così la lotta di Terranova contro Liggio è diventata un film. “A me interessa fare film dove gli eroi non sono i mafiosi, ma chi la mafia la combatte”

“Il giudice e il boss”, così la lotta di Terranova contro Liggio è diventata un film. “A me interessa fare film dove gli eroi non sono i mafiosi, ma chi la mafia la combatte”

“Il giudice e il boss”, è il titolo del nuovo film di Pasquale Scimeca. Il giudice è Cesare Terranova, accompagnato dal suo insostituibile collega e amico fraterno, il maresciallo Lenin Mancuso, entrambi uccisi per la loro instancabile lotta a cosa nostra il 25 settembre del 1979. Il boss è Luciano Leggio, capo della cosca corleonese, dopo l’assassinio di Michele Navarra e passato alle cronache come Liggio dopo un errore di trascrizione di un brigadiere. Scimeca non è nuovo al tema dell’antimafia, anzi, molti dei suoi film – dove tra i più famosi spicca “Placido Rizzotto”, dedicato al sindacalista siciliano ucciso da cosa nostra nel 1948 – parlano di chi ha dato la propria vita per annientare la mafia. Il regista è il più grande autore verista del nostro tempo. Da Giovanni Verga ha preso lo stile e se ne è fatto interprete, traducendolo nella contemporaneità, come è ben visibile dai suoi due capolavori “I malavoglia” girato nel 2010 e “Rosso Malpelo” del 2007. I film di Pasquale Scimeca non sono veicolati dai grandi distributori, li porta lui stesso in giro nelle scuole e nelle città. “Il giudice e il boss” verrà presentato a Roma ai primi di gennaio 2025.

Come le è venuta l’idea di questo film e perché proprio adesso, venticinque anni dopo “Placido Rizzotto”?

L’idea di fare questo film ce l’ho da tanto tempo, appunto da quando nel duemila ho girato “Placido Rizzotto”. Anche lui venne ucciso da Luciano Liggio. In questi anni ho fatto altro, ma avevo sempre in mente di continuare questo filone, che vuole avere come protagonisti non i mafiosi, ma chi la mafia l’ha combattuta. Fare un film su Cesare Terranova e su Lenin Mancuso è stato come continuare un discorso sui Corleonesi. Giudice e maresciallo si imbattono in loro nel 1958, ed è una data importante. Appena arrivato a Palermo a Terranova viene assegnata l’indagine sull’omicidio di Michele Navarra, capomafia di Corleone. Lui chiede di essere affiancato da un poliziotto e gli assegnano Lenin Mancuso, un giovane della mobile che conosceva bene quelle zone ed era arrivato in Sicilia facendo la lotta contro il banditismo e Salvatore Giuliano. Ma ancor più che raccontare dei Corleonesi, fare questo film è stato continuare un discorso sull’antimafia. Placido Rizzotto è un rappresentante di quella che possiamo chiamare “antimafia sociale”, dei contadini che lottano per la terra e si scontrano con la presenza della mafia. Il giudice Terranova, invece, nella lotta alla mafia è la parte cosiddetta giudiziaria.

Spesso Cesare Terranova non viene adeguatamente ricordato e invece è stata una figura importante, ci spieghi perché.

Lui è il primo che allarga il discorso e fa indagini sulla mafia. Detto così sembra una cosa facile, ma in realtà è complicata, perché nessuno voleva fare indagini in quegli anni. Non solo gli altri giudici non volevano fare indagini sulla mafia, ma ne negavano addirittura l’esistenza. Dicevano “ma quale mafia e mafia, non esiste, è una invenzione di giornalisti e scrittori di provincia”, il riferimento chiaramente era a Leonardo Sciascia. Terranova è importantissimo perché non solo riconosce l’esistenza della mafia, ma anche perché cerca di far affermare l’idea che non si tratta di bande separate, ma di un’organizzazione unitaria con dei capi, sottocapi, una gerarchia. Ed è fondamentale perché senza questa intuizione del giudice Terranova non avremmo avuto né FalconeBorsellino o il maxiprocesso. Con lui la mafia la stavamo sconfiggendo, poi…

In che senso la stavamo sconfiggendo? Poi cos’è successo?

Il giudice Terranova istruisce due grandi processi, il primo nel 1967 a Catanzaro – perché a quel tempo esisteva la legitima suspicione, ossia per non influenzare i giudici i processi si facevano fuori dalla Sicilia – dove porta sul banco degli imputati 114 mafiosi, praticamente tutta la mafia, corleonesi, palermitani… tutti assolti. Gli unici condannati sono stati Tommaso Buscetta e Salvatore Greco detto Cicchiteddu, ma solo perché non si erano presentati, erano scappati in Sud America e quindi non si erano difesi. Due anni dopo, nel 1969 istruisce un secondo processo a Bari, dedicato esclusivamente ai Corleonesi, 64 persone e anche lì tutti assolti. Fu condannato solo Totò Riina a un anno e sei mesi con la condizionale, perché quando venne arrestato aveva con sé una patente falsa e questo non l’hanno potuto nascondere. Proprio questi due processi sono fondamentali per far capire che si tratta di un unico sistema, ma sono stati tutti assolti.  La storia non si fa con i se e con i ma e si racconta con i fatti che succedono, però io mi chiedo, se questi processi avessero avuto un esito diverso e i Corleonesi fossero stati condannati tutti all’ergastolo, quante stragi ci saremmo risparmiati, quanto dolore, quanto sangue avremmo evitato che scorresse?

Poteva finire lì, niente più mafia?

Magari la mafia sarebbe anche finita lì, non voglio azzardare eccessivamente, però è importante ricordare che tra il 1962 e il 1963 a Palermo c’era stata la cosiddetta prima guerra di mafia. Questa guerra finisce perché, ad un certo punto, ancora oggi non si sa bene cosa sia veramente successo e come, ma quattro carabinieri, un poliziotto e due rappresentanti dell’esercito trovano una Giulietta posteggiata in un viottolo di Ciaculli, una borgata alla periferia di Palermo. Questa macchina era imbottita di tritolo e quando il capitano dei carabinieri apre il cofano, l’auto scoppia e muoiono tutti e sette. Questo fatto determina una rivolta, soprattutto dei poliziotti e carabinieri di Palermo. Si mettono d’impegno e cominciano a fare retate nei quartieri, arrestando circa novecento mafiosi. La “Cupola” si scioglie e c’è chi all’interno – come dirà poi Buscetta – propone di sciogliere l’organizzazione. È dopo il processo di Bari che cosa nostra si ricostituisce. Luciano Liggio richiama tutti e si riforma la Cupola con a capo il triumvirato di Liggio stesso, Stefano Bontade e Tano Badalamenti. I processi istruiti da Terranova però erano perfetti, per girare il film io mi sono letto centinaia e centinaia di carte, le indagini erano dettagliate. C’erano anche dei testimoni, cosa mai successa prima. Il primo pentito di mafia non è stato Buscetta con Falcone, ma Luciano Raia della cosca navarrese, con Terranova. Con quei processi la mafia si poteva sconfiggere, non l’hanno voluto fare. 

Chi non ha voluto e perché?

Io non conosco la verità, posso solo fare deduzioni dal mio studio. Dal mio punto di vista c’è stata una strategia della tensione che ha origine con la strage di Portella della Ginestra nella primavera del 1947. Lì si crea questo grumo infetto di servizi segreti italiani, mafia, servizi segreti americani, politici e imprenditori, grumo che non si scioglie più e ogni volta che c’è una crisi in Italia continua la strategia della tensione. Quei processi dovevano finire in quel modo perché Liggio serviva libero. Non è un caso che il processo di Bari è del 1969, Liggio viene liberato e poi comincia la strategia della tensione con l’attentato di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Oltretutto c’è una storia strana. Terranova riesce a convincere un suo collega a far emettere un mandato di cattura per Liggio per “pericolosità sociale”, mandato, però, mai eseguito e che viene nascosto negli Uffici Affari Riservati della polizia. Liggio rimane libero, tanto che lo sappiamo, se ne va a Milano e comincia a fare i sequestri di persone.

Non si sente quasi mai parlare della mafia e dell’antimafia degli anni che ci sta raccontando, questo film è un unicum nel suo genere, si menziona solo quella contadina o di Falcone e Borsellino, perché?

È un vulnus di una cosiddetta cultura di sinistra, cioè gli intellettuali di sinistra se ne sono sempre fregati. Ci sono stati Sciascia e Francesco Rosi nel dopoguerra, ma poi c’è stata una sorta di allentamento, fino ad arrivare all’ignoranza assoluta e totale. Nel nostro tempo non ci sono più intellettuali che si occupino di questi temi. Come se la mafia, dopo le stragi di Falcone e Borsellino non esistesse più. E invece non hanno capito niente, perché la mafia non solo c’è ma è cento volte più pericolosa e più potente di quanto non lo fosse ai tempi di Liggio. Non c’è interesse, anzi spesso, quando i registi se ne occupano, fanno danno.

 A cosa si riferisce? 

 A chi fa i film con protagonisti mafiosi e camorristi. In questo modo li fanno diventare dei miti, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione, come i ragazzi nelle periferie. Per loro questi diventano modelli da raggiungere. Facendo un esempio banale, prendiamo due ragazzini dei quartieri popolari di Palermo che sono costretti a lavorare per sostenersi o sostenere la famiglia. Uno dei due va a lavorare, magari in un bar o in un’officina e se va bene guadagna cento euro a settimana, l’altro comincia a spacciare e cento euro li prende in mezza giornata. Il vincente sembra il secondo. Quando dei ragazzini che vivono in questo sistema di disvalori, si ritrovano i mafiosi che vedono quotidianamente come modelli in televisione o al cinema, che cosa possiamo sperare più? Quella diventa la cultura dominante.

Gaetano Bruno, Peppino Mazzotta e Vincenzo Albanese ne “Il giudice e il boss”

Bisogna, invece, proporre una cultura alternativa a questa. I film non andrebbero fatti sui ragazzi mafiosi che diventano ricchi e potenti, ma su ragazzi come Lillo Zucchetto, un poliziotto sconosciuto che quando è stato ammazzato aveva solo ventisette anni. Era un ragazzo che aveva il coraggio di andare a Ciaculli, nei quartieri dove la polizia non metteva piede, a cercare i latitanti mafiosi. Per intenderci lì viveva Scarpuzzedda, Giuseppe Greco, che faceva parte della “squadra della morte” nella seconda guerra di mafia e scioglieva i suoi nemici nell’acido. Gente che aveva il potere di vita o di morte su chi abitava nel suo quartiere. Eppure, Lillo Zucchetto li andava a cercare casa per casa e li arrestava. Se noi non facciamo un film su di lui, questo ragazzo è morto invano. Lui è morto per affermare il valore dell’onestà, della giustizia e per combattere la prepotenza della mafia. Io vorrei fare un film su di lui, ma sono certo che troverò mille ostacoli come è successo per quest’ultimo sul giudice Terranova e il maresciallo Mancuso. Hai mai visto qualcuno a cui sia venuto in mente di fare un film su Lillo Zucchetto?

 No… in effetti no.

Io non do nessuna colpa ai ragazzi che vivono nei quartieri popolari e poi inneggiano ai camorristi che vedono in televisione, la colpa non è loro. È la realtà che vedono quotidianamente. Però così la mafia non la potremo sconfiggere mai. Borsellino lo diceva chiaro: «Noi facciamo quello che possiamo, arrestiamo e facciamo indagini, ma la mafia, se non cambiamo la cultura, non la sconfiggeremo mai». Quando al grande scrittore Gesualdo Bufalino chiedevano come si potrà mai sconfiggere la mafia, lui diceva «con un esercito di maestri di scuola elementare». Questo è il punto. A me interessa fare film dove gli eroi non sono i mafiosi, ma chi la mafia la combatte. Nel mio film Luciano Liggio è un poveraccio, che finisce la sua vita sbattendosi la testa contro il muro dentro una cella.

Lei fa spesso proiezioni nelle scuole, quali sono state le reazioni degli studenti a questo film?

Prima di iniziare il dibattito io faccio sempre una domanda: «Prima del film conoscevate il giudice Terranova e Lenin Mancuso?» Abbiamo fatto decine di proiezioni, con centinaia di ragazzi per volta, c’è stato un solo ragazzo che ha alzato la mano per dire «io lo conoscevo» e non ho osato chiedergli il perché lo conoscesse. Questo fa capire che i ragazzi sono completamente all’oscuro di queste cose. Poi una volta che vedono la pellicola, le domande sono straordinarie e bellissime. Sono domande anche forti. Vogliono sapere tutto del giudice, se il film racconta la verità o se sono cose inventate. Per me rimarrà importantissima sempre la proiezione che abbiamo fatto a Corleone con quattrocento ragazzi. Tutti hanno visto il film in silenzio, non volava una mosca. Dopo la visione, il sindaco, un ragazzo giovane di 30 anni, ha avanzato una proposta, che poi avrebbe fatto anche in consiglio comunale: intitolare una via a Lenin Mancuso. A quel punto c’è stato un applauso pazzesco. I ragazzi hanno applaudito con passione. Questo ci fa capire come un film nel suo piccolo possa determinare un’apertura mentale, una tensione emotiva che li porta ad applaudire quando il sindaco di Corleone fa una proposta del genere. E proprio lì, poco tempo prima, il figlio di Totò Riina aveva postato una foto da Via Cesare Terranova, chiamandola provocatoriamente con il nome di Via Scorsone, che aveva fino a due anni fa. Con quell’applauso io mi sono commosso. Lì ho pensato “ho fatto bene a fare questo film nonostante tutti i sacrifici”. Uno dei miei grandi maestri è Pierpaolo Pasolini, e per fare questo film sono partito da lui. Prima di essere ammazzato Pasolini scrisse sul Corriere della Sera un articolo bellissimo, straordinario e tragico dove diceva “io so la verità, ma mi mancano le prove”. Terranova ha detto la stessa cosa. Ma Pasolini era un intellettuale, Terranova un giudice, quindi, ci ha aggiunto un’altra cosa: “io torno (per un periodo era entrato in Parlamento ed era andato a Roma ndr) per cercarle queste prove”, e per questo è stato ammazzato, insieme al sodale e amico Lenin Mancuso, il 25 settembre 1979.

Gaetano Bruno ne “Il giudice e il boss”