Palermo 19 luglio 1992, via D’Amelio. Lì, quel giorno di trentadue anni fa, fu fatta esplodere una Fiat 126 imbottita di tritolo che uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. È di fine luglio 2024, a pochi giorni dal trentaduesimo anniversario dell’eccidio, la richiesta dei figli di Paolo Borsellino di costituirsi parte civile e di citare la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno come responsabili civili per il depistaggio che quattro agenti del gruppo d’inchiesta sulle stragi del ’92 avrebbero commesso. Ai figli si è unito il fratello del giudice, Salvatore Borsellino. La richiesta, “dovuta e priva di implicazioni politiche”, come ha precisato all’agenzia Ansa il legale della famiglia Fabio Trizzino, è arrivata nel corso dell’udienza preliminare che vede accusati di depistaggio i poliziotti Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco.
Il rinvio a giudizio e la prescrizione
Il procuratore capo Salvatore De Luca e il sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso hanno chiesto il loro rinvio a giudizio per aver deposto il falso come testimoni nel processo per il depistaggio dell’attentato di via D’Amelio, in cui erano imputati altri tre agenti del pool d’indagine Falcone-Borsellino, ovvero Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata per aver favorito cosa nostra. In appello l’aggravante mafiosa è decaduta e per tutti e tre è scattata la prescrizione. Dunque, per loro nessuna condanna. I quattro poliziotti invece, dopo troppi silenzi e “non ricordo”, sono indagati per falsa testimonianza. Il 19 settembre, il giudice per le indagini preliminari si pronuncerà sulle richieste di costituzione a parte civile.
Ma lo Stato, ora, è chiamato a rispondere come responsabile perché alcune sue componenti, trentadue anni fa, hanno avuto un ruolo nell’allontanamento dalla verità. Ad oggi le opacità attorno a questa pagina della nostra storia sono molte e altrettanti i capitoli non ancora conclusi. La ricerca della verità è lunga cinque processi che a loro volta rimandano ad altri processi “appendice”. Una matrioska dibattimentale infinita. “È uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, si legge nella sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta del 20 aprile 2017 del cosiddetto “Borsellino quater”, in cui “sono coinvolti diversi livelli delle istituzioni”. Tra le motivazioni si mette nero su bianco il coinvolgimento di uomini delle forze dell’ordine e non solo, di pezzi dello Stato quindi, nelle sistematiche deviazioni nella ricerca della verità sull’attentato del 19 luglio 1992.
Scarantino e la fabbrica dei finti pentiti
Ma andiamo con ordine. Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, componenti del pool d’indagine sulle stragi del ’92 erano fedelissimi del capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, dirigente dello stesso gruppo d’inchiesta. Secondo la procura di Caltanissetta La Barbera, assieme all’allora procuratore della repubblica della città siciliana Giovanni Tinebra e con la collaborazione di Bruno Contrada, ex dirigente del Sisde, aveva creato il falso pentito Vincenzo Scarantino. È dal “pupo vestito” che prendeva il via un sistema di falsi collaboratori di giustizia addestrati ad hoc per coprire i veri responsabili. Si legge nella sentenza che «Scarantino sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni […] da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione».
Il castello di menzogne
Il castello di menzogne cadde solamente nel 2008 con il pentimento di Gaspare Spatuzza, un imbianchino affiliato al clan mafioso di Brancaccio dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, responsabile dell’uccisione di Don Pino Puglisi e del rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo. Spatuzza fece delle rivelazioni importanti su quanto accaduto quel giorno a Palermo segnando un punto di svolta nelle indagini fin lì condotte e allo stesso tempo squarciando “il velo” dei depistaggi. È a questo punto che, leggendo tra le righe della sentenza del 2017, comparve il coinvolgimento “di soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Quello che è stato costruito è un vero e proprio sistema in cui “portare fuori strada” diventava, in quella fase, uno strumento per coprire i veri responsabili. E questo non solo tramite “la copertura della presenza di fonti rimaste occulte” ma anche con “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”, si legge sempre nella sentenza del processo Borsellino quater.
“Lo scempio della verità”
Lucia Borsellino in un’intervista a Rai Radio 1 pochi giorni dopo l’udienza preliminare a carico dei quattro agenti, ha parlato di “scempio della verità” e di un depistaggio che è “tutt’ora in atto e ancora – dice – non siamo nelle condizioni di capire cosa sia realmente successo. L’intero Stato italiano deve indignarsi e mettere in atto tutte le sue forze migliori per riuscire a capire quello che è realmente accaduto”. La sentenza del 2017 insieme alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, un filo rosso per fare luce su quel giorno di metà luglio del 1992, confermano che via D’Amelio non è stata solo una strage di mafia. Oggi, dopo trentadue anni, lo Stato è citato come responsabile civile. Oggi, ancora una volta, si attende che l’intero progetto criminoso e chi ne ha preso parte vengano allo scoperto. “Noi siamo sempre presenti in ogni sede dove si possa ristabilire la verità, sempre fedeli all’eredità morale del giudice Paolo Borsellino”, ribadiscono alla stampa Fabio Trizzino e Vincenzo Greco, gli avvocati di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino.