Fernanda la pioniera, i ricordi della prima donna a capo di una squadra mobile: “Così picconai i muri innalzati dagli uomini” 

Fernanda la pioniera, i ricordi della prima donna a capo di una squadra mobile: “Così picconai i muri innalzati dagli uomini” 

«Le donne hanno tutte le capacità per ottenere i risultati che sognano». Fernanda Santorsola, è stata la prima donna italiana a capo di una squadra mobile di polizia, oggi ha 91 anni e ha pubblicato la sua autobiografia, intitolata: “La rivincita della memoria. Quando Eva sfidò Adamo ed entrò in polizia”. Stampato nel dicembre 2024, il libro non è in vendita: è un dono per amici e colleghi e racchiude tutta la sua storia, dall’infanzia agli anni della “goliardia” – come Fernanda stessa li definisce – fino ad arrivare al momento nel quale supera l’esame per entrare nel corpo di polizia femminile con l’assegnazione della sua prima sede, a Brindisi, la seconda ad Ancona e l’inizio della carriera di una donna in un mondo per soli uomini. 

Un mondo riservato agli uomini 

Già. A quei tempi le forze dell’ordine erano ambiti esclusivamente maschili, ma Fernanda nel 1960, nonostante il parere contrario della famiglia, dopo aver partecipato ad altri concorsi, decise di provare anche a quello per entrare nella squadra di polizia femminile. «Ero molto testarda, non arretrai e feci il concorso lo stesso», racconta a #Noi Antimafia la poliziotta che fu pioniera di una piccola rivoluzione. Così, negli anni Settanta, l’ex capo della mobile Santorsola varcò quel muro di barbe e pantaloni ed entrò a far parte di un ambiente quasi esclusivamente ad appannaggio maschile -come lei stessa ricorda- in tempi in cui anche i concorsi per entrare in magistratura o in prefettura erano preclusi alle donne. 

Gli inizi della carriera 

«All’inizio non mi permettevano di svolgere le indagini. Quando mi trovavo a lavorare a casi di rapine o furti mi veniva detto che le mie ricostruzioni erano sbagliate, che si trattava solo di errori commessi da qualche delinquente, nulla di più. Se denunciavo alla Buoncostume gli abusi compiuti su bambini, ragazzi e anziani, spesso mi sentivo rispondere che erano normali mezzi di correzione», racconta Fernanda ripercorrendo quegli anni.  Subì anche atti di intimidazione, perché arrivò a trovare la sua scrivania, i suoi documenti di lavoro e quelli delle colleghe spostati in un corridoio e solo appellandosi al questore ottenne di nuovo un ufficio per lavorare.  «Mi ribellai e dissi a quello che aveva spostato le nostre cose di rimettere tutto dov’era. Lui con il dito alzato mi urlava contro: Come ti permetti? Risposi che io non avrei preso ordini da lui perché dipendevo solo dal questore che poi ci fece riavere le nostre stanze».

Il mostro di Marsala 

La svolta nella vita di Fernanda arrivò quando, dopo aver trascorso un anno a Trapani, indossando la divisa nelle aree che tre anni prima erano state devastate dal terremoto del Belice, ricevette la telefonata del questore che le chiese di collaborare come investigatrice per risolvere una vicenda nota alle cronache come “Il caso del mostro di Marsala” legata alla sparizione di tre bambine, Antonella Valenti di 11 anni e le sorelle Ninfa e Virginia Marchese, di 7 e 9 anni. Il ruolo assegnato a Fernanda era quello di provare a parlare con le sorelline delle piccole scomparse. Fu in quella occasione che la poliziotta affiancò Cesare Terranova, l’allora procuratore della Repubblica di Marsala, che pochi anni dopo, il 25 settembre 1979, nel centro di Palermo, venne ucciso assieme al maresciallo Lenin Mancuso in un attentato organizzato da cosa nostra. 

Una indagine agghiacciante 

In Sicilia la diffidenza nei suoi confronti, in quanto donna, apparve chiara fin da subito. Appena arrivata a Trapani, ricorda, si sentì dire da alcune guardie: «È arrivata la scienziata da Ancona ad insegnare a noi il mestiere». Lei non si lasciò scalfire dalle provocazioni, andò dritta per la sua strada. Ricorda che sul caso del mostro di Marsala durante il primo colloquio con la sorellina di Antonella Valenti, la più grande delle piccole scomparse, colse un indizio fondamentale quando la bimba le disse: «Sono gelosa perché lo zio offre sempre le caramelle ad Antonella e a me mai». La frase ingenua fu una rivelazione per Fernanda: il modus operandi dei pedofili nell’adescamento dei bambini era proprio questo e quindi concordò col procuratore di ascoltare lo zio, Michele Vinci. 

I sospetti sullo zio 

Ripercorrendo le fasi dell’indagine, la superpoliziotta racconta: «Un benzinaio ricordava di aver visto nella sua stazione di servizio una Cinquecento blu con delle bambine a bordo che battevano le mani sui vetri. Subito il procuratore chiese il censimento delle auto di quel modello e si scoprì che Michele Vinci, lo zio di Antonella Valenti, aveva proprio una Cinquecento blu». I sospetti dunque portavano allo zio, ma ci volevano prove e ancora non ce n’erano. Purtroppo, arrivò il giorno del drammatico rinvenimento dei cadaveri delle tre piccole.  

I corpi delle bimbe 

Il primo corpo ad essere recuperato fu quello di Antonella, morta per soffocamento e a Santorsola torna alla mente un particolare di quel momento: «Lo scotch che era vicino al corpo della bambina proveniva dalla fabbrica dove lavorava lo zio». Virginia e Ninfa vennero ritrovate qualche tempo più tardi, anche loro morte per strangolamento, in fondo ad un pozzo. Santorsola ancora oggi si commuove nel ricordare il rinvenimento dei corpicini: «Non ci posso pensare, cosa fu quel momento – dice con la voce strozzata – non riesco nemmeno a parlare». Alle operazioni di recupero dei corpi di Ninfa e Virginia, volle partecipare anche il generale dell’arma dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che arrivò appositamente da Palermo, città dove era prefetto. 

Il primo encomio 

Dopo aver risolto il caso Fernanda ricevette dal ministero il primo encomio della sua carriera, grazie alle parole messe su carta dal procuratore Cesare Terranova, che scrisse una lettera indirizzata alle questure di Ancona e Trapani, elogiando l’investigatrice e affermando che il suo contributo umano, la sua capacità di allacciare i rapporti con le famiglie e le bambine, erano stati fondamentali nella risoluzione del caso. Qualche settimana più tardi, sul giornale di Ancona, venne pubblicato un articolo nel quale Fernanda veniva descritta come figura decisiva nell’individuazione di Michele Vinci come colpevole.  L’uomo sarà condannato a 28 anni di carcere per quel triplice omicidio. 

A capo della Mobile  

Nel 1980, dopo nove anni dal suo rientro in servizio nella città anconetana, arriva la svolta: Mario Iovini, giovane questore proveniente dalle squadre mobili di Bologna e Milano, le segnala che c’era la possibilità di entrare nella squadra mobile di Ancona. Nessuno si era finora fatto avanti perché l’incarico prevedeva orari molto impegnativi: «Io pensavo che scherzasse – ricorda Santorsola – ma comunque mi proposi». Iovini accettò la candidatura e la nominò dirigente della squadra mobile, portandola di fatto ad essere la prima donna in Italia e in Europa a ricoprire questo ruolo. 

“Non arrendetevi” 

Fernanda Santorsola oggi conduce una vita tranquilla. Nonostante abbia perso la vista, non riesca a camminare e fatichi a parlare, ha ancora una memoria di ferro. Orgogliosa e fiera della sua carriera, ha deciso di donare a #Noi Antimafia, il suo libro, sperando che il suo racconto sproni le donne di oggi a credere, con coraggio e determinazione, di poter realizzare i propri sogni. «Non arrendetevi, tentate, lottate e abbattete il muro di incomprensione con gli uomini» dice Fernanda, lasciando trasparire la determinazione che la contraddistingue. E vuole che questo sia il suo messaggio per le donne del presente e del futuro.