ESCLUSIVA/ Caltanissetta, “Quelle bobine mai distrutte con dentro la verità nascosta per anni”

ESCLUSIVA/ Caltanissetta, “Quelle bobine mai distrutte con dentro la verità nascosta per anni”

C’è un nome eccellente e inaspettato spuntato dall’indagine della procura di Caltanissetta sul presunto insabbiamento dell’inchiesta mafia-appalti del 1992, ed è quello dell’ex procuratore di Palermo, Reggio Calabria e Roma, oggi presidente del tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone. È accusato di favoreggiamento alla mafia nell’ambito del dossier mafia-appalti. A Pignatone, il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca con l’aggiunto Pasquale Pacifico e i sostituti Claudia Pasciuti, Nadia Caruso e Davide Spina contestano di essere il “co-istigatore” del presunto insabbiamento delle indagini su un filone del fascicolo mafia-appalti insieme all’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco (deceduto nel 2018), il generale della guardia di finanza Stefano Screpanti e l’ex pm Gioacchino Natoli. Avrebbero messo in atto – secondo l’accusa – “un disegno criminoso” per favorire, aiutandoli ad eludere le indagini, gli affari con il gruppo Ferruzzi di Antonino e Salvatore Buscemi e Francesco Bonura, affiliati al mandamento mafioso Uditore-Passo di Rigano.

I ricordi di Ingroia: “I sospetti di Borsellino sui suoi colleghi”

“Voi due non me la raccontate giusta”, aveva detto Paolo Borsellino ai sostituti Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone a margine di una riunione convocata dal procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco il 14 luglio 1992. A raccontarlo a #Noi Antimafia Antonio Ingroia. A quella riunione, secondo quanto riportato dall’avvocato dei figli di Borsellino in Commissione parlamentare antimafia nell’ottobre 2023, parteciparono anche Lo Forte e Giuseppe Pignatone, e secondo quanto riferito dall’ex pm Gioacchino Natoli – anch’egli presente all’incontro – alla stessa Commissione nel gennaio 2024, si parlò anche di quel filone di mafia-appalti. Se lo ricorda nitidamente Ingroia, oggi avvocato e impegnato in politica, allora sostituto procuratore a Palermo con Borsellino che ricostruisce per #Noi Antimafia come è andata quel 14 luglio 1992. “Finita la riunione uscendo dalla sala della procura, ognuno rientrava nelle sue stanze. C’è stato un momento in cui si sono incrociati gli sguardi ed io ero accanto a Borsellino e l’ho sentito fare questa battuta a Lo Forte e Pignatone che non replicarono”.

Le frizioni tra Borsellino e Giammanco

Aggiunge che “la gestione del famoso fascicolo mafia-appalti era stata già motivo se non di contrasto, comunque, di divergenze di vedute” tra Giammanco, i suoi collaboratori e il magistrato. Contrasto che, dice, era emerso “già nell’anno precedente, nel ’91 quando Borsellino era in procura a Marsala (e Ingroia era con lui, ndr). La procura di Marsala si occupava di quell’indagine con il fascicolo sul versante marsalese quindi abbiamo avuto anche degli incontri e delle riunioni, io e Borsellino per Marsala, Giammanco con Lo Forte e Pignatone per Palermo. Anche qui ci furono delle posizioni non allineate – diciamo così”. E sottolinea che questo era solo uno dei motivi di frizione tra Borsellino e Giammanco.

Quindi Borsellino conosceva, già e bene, il dossier su mafia – appalti e proprio perché non ci vedeva chiaro voleva andare a fondo. I sospetti si erano fatti sempre più fitti dopo che, ci racconta Ingroia, “i carabinieri raccontarono a Borsellino la loro versione – sulla vicenda – ritenendo che le indagini erano state insabbiate dalla procura di Palermo – quindi Borsellino voleva vederci chiaro – e nascono – ci dice ancora Ingroia – in quel contesto alcune richieste di chiarimenti e di informazioni”.

L’inizio: le infiltrazioni di cosa nostra nelle aziende marmifere toscane

Il quadro è molto complesso. L’inchiesta a cui fa riferimento la procura di Caltanissetta rimanda ad una prima indagine sulle ipotetiche relazioni tra le famiglie Buscemi e Bonura e il gruppo Ferruzzi avviata nel ’90 dal sostituto procuratore di Massa Carrara, Augusto Lama. Lama, ha riferito in Commissione parlamentare antimafia nel gennaio 2024, all’epoca dei fatti, aveva aperto un fascicolo relativo alle “presunte infiltrazioni mafiose nelle zone marmifere di Carrara attraverso il controllo di alcune aziende toscane”. Nel ‘91 – ha riferito – aveva chiesto poi alla procura di Palermo di mettere sotto attenzione investigativa e sotto controllo le utenze della Generale Impianti – società di mediazione palermitana gestita dal gruppo Ferruzzi – e, più in genere, delle altre società che vi facevano capo e dei personaggi che vi gravitavano – tra cui i Buscemi e Bonura – in attesa eventualmente di sviluppare indagini più particolareggiate”.

Le 29 conversazioni “smagnetizzate”

A Palermo l’indagine venne assegnata al pm Gioacchino Natoli che affidò le intercettazioni di alcuni affiliati del mandamento e di alcuni esponenti di società palermitane del gruppo Ferruzzi alla guardia di finanza guidata dall’allora generale Stefano Screpanti. Queste intercettazioni secondo quanto riferito da Natoli in un’audizione nel gennaio 2024 alla Commissione parlamentare antimafia “diedero da subito esito assolutamente negativo”, ma “la guardia di finanza allegò le trascrizioni integrali delle ventinove conversazioni ritenute più rilevanti”. Sarà poi lo stesso Natoli per questo motivo a disporre, il primo giugno 1992 l’archiviazione del provvedimento e il 25 giugno la smagnetizzazione delle bobine “per una prassi d’ufficio”.

Il giallo dell’annotazione a penna e le bobine integre

C’è di più. In calce a questo provvedimento compare un’annotazione a penna, ovvero l’annotazione di distruzione dei brogliacci che l’ex pm precisa non essere sua, “la calligrafia non è la mia”, ha detto alla Commissione. Le bobine, poi, secondo quanto riportato dall’ex pm “sono sempre state nel fascicolo, ma – sottolinea – lo sono state da allora e per tutti questi trentuno anni”. Solo ora si scopre che non sono state mai smagnetizzate, ma sono rimaste per tutto questo tempo negli archivi della procura di Palermo senza che nessuno le andasse mai a cercare. Ma la vicenda si fa sempre più complessa perché le intercettazioni, secondo quanto sta emergendo dalle indagini, non sarebbero solo 29 ma molte di più e con dettagli tutt’altro che irrilevanti. Inoltre la procura ha disposto una perizia grafologica per capire chi, allora, aggiunse a penna l’ordine di smagnetizzazione sul provvedimento firmato dall’ex pm Natoli. Tra i sospettati c’è il nome di Giuseppe Pignatone a cui è contestata “l’istigazione nei confronti di Natoli e Screpanti” a condurre “nel 1992 un’indagine apparente limitando tra l’altro le intercettazioni telefoniche ad un brevissimo lasso temporale”. Sia Natoli che Pignatone convocati in procura si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Quest’ultimo si è dichiarato innocente.

L’isolamento di Paolo Borsellino

Si chiedono i familiari di Paolo Borsellino, tramite il loro avvocato Fabio Trizzino che ha ricostruito la vicenda in Commissione parlamentare antimafia tra il settembre e l’ottobre 2023, se questo presunto insabbiamento non fosse studiato a tavolino per tenere lontano il magistrato Borsellino dalle indagini su quel filone di mafia-appalti. Le ragioni di questo sospetto le ripercorre in parte Antonio Ingroia.

Paolo Borsellino e Pietro Giammanco, foto Repubblica

L’allontanamento del magistrato coincide con il suo isolamento tanto che ci racconta Ingroia, Paolo Borsellino nonostante conoscesse i contrasti e l’isolamento in cui si era trovato Giovanni Falcone nel suo stesso ruolo pochi mesi prima “comunque decise di fare domanda per il posto di procuratore aggiunto a Palermo nonostante vi fosse Giammanco con il quale immaginava che avrebbe avuto presto contrasti, però non poteva immaginare che avrebbe affrontato una stagione così particolarmente difficile”.

Gli ostacoli all’indagine antimafia

Un altro freno a Borsellino fu imposto dal procuratore capo al suo arrivo a Palermo il primo marzo 1992 quando gli fu affidato il coordinamento delle indagini per mafia delle province di Trapani e Agrigento. Su Palermo il magistrato sembrava non avere margine di manovra. Infatti, riporta Ingroia “l’accelerazione degli eventi – dopo la strage di Capaci – determinò una sua maggiore insistenza per occuparsi anche delle indagini importanti su Palermo e conseguentemente una maggiore resistenza di Giammanco per affidargli le indagini su Palermo”. Borsellino la delega sul capoluogo siciliano e quindi, la possibilità di fare luce su mafia-appalti, la ottenne con una telefonata la mattina del 19 luglio 1992, poche ora prima di essere ucciso, ricorda l’avvocato Fabio Trizzino dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia. E ancora sottolinea che “Paolo Borsellino era convinto che lì – nel rapporto mafia-appalti – vi fosse una delle chiavi, se non la chiave, di spiegazione della strategia criminale in corso”.

“Quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi”

Alla procura di Palermo si respirava poco e male. E gli interrogativi sono ancora tanti, troppi. Le indagini della procura di Caltanissetta stanno cercando di mettere in fila i fatti uno dopo l’altro. Riferisce l’avvocato Trizzino in Commissione parlamentare antimafia che Paolo Borsellino confidò alla moglie Agnese Piraino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta di mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”. E aggiunge Ingroia citando il libro di Giovanni Falcone “Cose di cosa nostra”. “Si muore quando si è soli ed isolati. Quindi il tema dell’isolamento di Falcone prima e di Borsellino poi, alla procura di Palermo – dice – non può considerarsi secondario rispetto anche al maturare delle condizioni delle stragi”. Sarà, ora, la procura a fare chiarezza sciogliendo ogni nodo di questa matassa.