Donne di mafia: lo stereotipo le vuole spettatrici passive, nella realtà sono le vere menti criminali dei clan

Donne di mafia: lo stereotipo le vuole spettatrici passive, nella realtà sono le vere menti criminali dei clan

Madri, sorelle e mogli: il mafioso non è un mestiere, si fa per dire, di soli uomini. Spesso considerate spettatrici della criminalità organizzata, le donne di mafia sono raccontate solo come vittime e sottomesse, ma in alcuni casi sono le vere menti dietro le azioni criminali.  Un rapporto dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), pubblicato nel dicembre 2023, dimostra come gli stereotipi di genere tradizionali continuano a influenzare e a plasmare il modo in cui gli operatori della giustizia penale pensano alle donne e al crimine. La visione delle donne come attori passivi e subalterni ostacola una comprensione più completa e sfumata della realtà delle donne nei gruppi criminali. Non c’è dubbio che alcune di loro subiscano una violenza di genere nell’essere relegate a ruoli secondari o di accompagnamento, tuttavia molte altre partecipano attivamente alla vita dell’organizzazione. Spesso trasmettono i valori criminali alle nuove generazioni all’interno delle famiglie e dei gruppi, contribuendo alla continuità “culturale” dei clan. In altri casi segnano le decisioni che contano e sono in grado di aprire e chiudere una faida. 

Anche le donne tra gli alti ranghi della malavita

Emblematico il caso di Giusy Vitale, prima donna condannata per associazione mafiosa nel 1998. Il suo ruolo era quello di capo mandamento di Partinico, un paese vicino Palermo, un titolo di alto livello nei ranghi di cosa nostra. Eletto per votazione, il capo mandamento è il punto di riferimento di un gruppo di tre famiglie confinanti tra loro, riunite per l’appunto in un mandamento. Vitale da piccola faceva la “postina”, ovvero recuperava messaggi dai latitanti e li consegnava ai suoi fratelli. Quando però divennero latitanti e poi vennero arrestati, il comando passò a lei: la scelta doveva essere temporanea ma non fu così. Vitale chiese incontri ai boss di Corleone e a Giovanni Brusca, uno degli autori dell’attentato al magistrato Giovanni Falcone.

Le “madrine”

Sono soprattutto le donne appartenenti a famiglie storiche di cosa nostra infatti quelle sposate con mafiosi di rango e coscientemente partecipi delle attività dei congiunti. È la storia di Maria Rosa Campagna, moglie del boss catanese Turi Cappello. Campagna è stata arrestata nel 2017 perché gestiva l’importazione in Sicilia di centinaia di chili di cocaina all’anno dalla Colombia. Anche Patrizia Messina Denaro, sorella di Matteo, il latitante più ricercato in Italia, è stata condannata a 14 anni di carcere. Secondo gli inquirenti era il capo riconosciuto del clan di Castelvetrano. Maria Angela Di Trapani guidava invece il mandamento mafioso palermitano di Resuttana, vicino Palermo. Nelle intercettazioni gli uomini del clan la chiamavano solo «la padrona». Queste sono alcune delle donne che hanno ricoperto e ricoprono un ruolo attivo negli affari della famiglia mafiosa, svolgendo compiti criminali in prima persona, tanto da essere definite “madrine” a pieno titolo. 

Il “prestanome perfetto”

Un’inchiesta del 2019 di Transcrime, centro interuniversitario dell’Università Cattolica di Milano, ha calcolato che un terzo degli azionisti di società confiscate alle mafie è donna: un numero che è quasi il doppio della media delle aziende italiane nell’economia legale. Michele Riccardi, ricercatore di Transcrime, ha dichiarato in un’intervista a IrpiMedia che «rappresentano il prestanome perfetto per le aziende mafiose poiché generalmente presentano meno precedenti penali, vengono rilevate con meno frequenza nei processi di due diligence di banche e altri soggetti obbligati e, specialmente se appartenenti alla famiglia, consentono di tenere il controllo delle imprese in-house». Inoltre, la loro posizione di madri, mogli, partner, figlie, sorelle, zie o cugine dà loro il potere, il rispetto e la reputazione necessari per assumere ruoli significativi all’interno delle organizzazioni criminali. Lo studio dell’Osce del 2023 dimostra anche come i gruppi criminali organizzati sfruttino la mancanza di comprensione e riconoscimento del ruolo delle donne nel panorama criminale. I clan approfittano della tendenza delle autorità giudiziarie a non considerare le donne come attori significativi, il che consente loro di agire senza essere scoperte dalle forze dell’ordine all’interno delle reti criminali.