Non ci sono dubbi che alcune componenti dello Stato abbiano avuto un ruolo nel depistaggio della strage di via d’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino assieme agli agenti della sua scorta. È per questo che i familiari di Borsellino si sono costituiti parte civile nel processo per depistaggio a carico di quattro agenti del pool che indagava sulle stragi del ’92. Ed è per questo che il 3 ottobre il giudice per le indagini preliminari David Salvucci ha accolto le richieste dei figli di Borsellino mettendo nero su bianco la responsabilità civile della presidenza del Consiglio dei ministri e del Viminale, degli uomini delle istituzioni che, in quel frangente di storia, contribuirono ad allontanare la verità o non fecero nulla per avvicinarla.
Il primo depistaggio
Ripercorriamo gli ultimi sviluppi processuali per capire come si è arrivati alla decisione di oggi. Lo Stato, identificato in questo caso nella presidenza del Consiglio dei ministri e nel ministero dell’Interno è chiamato in causa come responsabile civile, citato dai figli del giudice, per il depistaggio ad opera di quattro agenti del gruppo d’inchiesta sulle stragi del ’92. Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco avrebbero deposto il falso come testimoni nel processo per depistaggio in cui erano imputati altri tre poliziotti, tutti e tre prescritti. Se i quattro verranno condannati a rispondere per i risarcimenti saranno la presidenza del Consiglio dei ministri e il Viminale. “Un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato” aveva confidato il magistrato alla moglie Agnese Piraino, si legge nelle motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta del 2017 del cosiddetto Borsellino quater. La confidenza Borsellino la farà alla moglie dopo il 28 giugno 1992 quando, di ritorno da un convegno in Puglia, incontrò all’aeroporto l’allora ministro della Difesa Andó che gli disse che una fonte confidenziale aveva riferito che dovevano fare una strage per ucciderlo “per mezzo di esplosivo”. Su questo era arrivata una nota alla procura di Palermo (quindi avrebbero dovuto rafforzare la sicurezza per Borsellino) guidata da Giammanco che non riferì nulla peró a Borsellino. Questo è quanto emerge dalla sentenza del Borsellino quater, la ricostruzione poi dell’incontro all’aeroporto la farà anche l’avvocato Trizzino in Commissione parlamentare antimafia.
Quel “nido di vipere” contro Borsellino
Il punto è che, i responsabili di quanto accaduto in via d’Amelio vanno cercati in quello che Paolo Borsellino aveva definito un “nido di vipere” ovvero la procura di Palermo. I responsabili del depistaggio camminavano tra i muri del palazzo di giustizia, sedevano sugli scranni delle forze dell’ordine. “Un altro aspetto che abbiamo constatato in tutti questi anni sono il silenzio e i non ricordo di molti uomini delle istituzioni, che non ci hanno consentito di risalire ai veri responsabili del depistaggio”, ha dichiarato Lucia Borsellino nell’ottobre 2023 in un’audizione alla Commissione parlamentare antimafia. La figlia del giudice mette poi in fila i fatti uno dietro l’altro. La sottrazione dell’agenda rossa, il sistema dei falsi collaboratori per coprire i veri responsabili, la mancanza di alcune testimonianze chiave come quella del procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco fino alla sottrazione delle chiamate in entrata del cellulare del giudice. A questo si aggiungono testimonianze poco chiare e contradditorie. Pezzi che mancano e che, oggi, dopo trentadue anni sono oggetto d’indagine della procura nissena.
“Qualcuno mi ha tradito”
In un’udienza del 2014, precedente alla sentenza del 2017, la procuratrice Alessandra Camassa e il procuratore Massimo Russo hanno riferito di ricordare nitidamente quando il giudice Borsellino definì la procura di Palermo un “nido di vipere”. Era il giugno del ’92 e si trovavano nella stanza del magistrato. In questa circostanza Borsellino aggiunse anche, in lacrime, hanno raccontato Camassa e Russo, che non poteva credere che qualcuno lo aveva tradito. “Se noi incrociamo, quindi, questa confidenza del dottor Borsellino con la testimonianza del 2009 riconfermata nel 2011 dalla dottoressa Alessandra Camassa e dal dottor Massimo Russo, in cui ci dicono che il dottor Borsellino definisce il suo ufficio un nido di vipere, noi allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione e indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre preceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”. È l’interrogativo che l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli, ha posto in apertura ad una serie di audizioni alla Commissione parlamentare antimafia tra settembre e ottobre 2023.
La scomparsa dell’agenda rossa
Tra i silenzi e i “non ricordo” certamente ci sono quelli dei quattro poliziotti rinviati a giudizio nel luglio 2024 (…) che hanno portato il procuratore capo Salvatore De Luca e il sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso ad approfondire il loro ruolo nel depistaggio. Dietro la scomparsa dell’agenda rossa su cui continuano ad “emergere persistenti zone d’ombra” poiché “non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa nostra)” si legge nella sentenza del 2017 del Borsellino quater, compare il nome del capo della mobile di Palermo e dirigente del gruppo d’inchiesta sugli attentati del ’92 Arnaldo La Barbera, considerato il regista del depistaggio di via d’Amelio. La Barbera che, secondo la stessa sentenza ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino, il giorno stesso della strage riferì ad Agnese Piraino, la moglie del giudice Borsellino che – si legge tra le righe della decisione – la borsa in cui era contenuta l’agenda rossa, era stata distrutta con l’esplosione nonostante – viene precisato – risultasse che “il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992”.
La costruzione dei falsi e le mancate relazioni di servizio
Borsa che – viene sottolineato dalla Corte d’assise nissena – era stata portata nell’ufficio di La Barbera senza alcuna relazione di servizio e, senza verbale e relazione di servizio, era avvenuta anche, dopo alcuni mesi, la sua restituzione da parte dello stesso capo della mobile alla moglie del giudice. In quell’occasione Lucia Borsellino chiese di riavere l’agenda rossa del padre ma, riporta la sentenza del 2017 “il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire”. “Peraltro non ci è dato sapere come mai non fu fatto nell’immediato del dopo strage l’esame del Dna sulla borsa di nostro padre, tenuto conto che l’esplosione comunque non l’aveva distrutta e l’aveva mantenuta integra, sebbene un po’ ammaccata da qualche parte e bruciacchiata. Tra l’altro mi risulta che per la strage di Capaci questo esame venne fatto”. Ha aggiunto la figlia del magistrato dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia nel 2023. Ora, dopo trentadue anni, sarà la procura di Caltanissetta a ricostruire pezzo dopo pezzo le responsabilità dello Stato in una serie di indagini in cui ogni giorno compaiono nuovi particolari.
La collaborazione tra i servizi segreti e la procura nissena
Ma la decisione del gup che chiama direttamente in causa lo Stato accende i riflettori anche sul ruolo del Sisde – il servizio segreto dipendente dalla presidenza del Consiglio dei ministri – sulla costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino. Perché, il cosiddetto “pupo vestito”, è uno dei nodi di decollo del depistaggio. Nella sentenza-guida del Borsellino quater si parla di “un coinvolgimento diretto del Sisde, al di fuori di qualsivoglia logica e regola processuale, nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, orientate verso la falsa pista di Vincenzo Scarantino”. Coinvolgimento che mette al centro ancora una volta – si legge – non solo, il capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, ma anche l’allora procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra e l’ex dirigente del Sisde Bruno Contrada. Dagli atti emerge ancora che “il 10 ottobre 1992, veniva trasmessa alla Squadra Mobile di Caltanissetta, una nota elaborata proprio dal centro Sisde di Palermo, su specifica richiesta del Procuratore Giovanni Tinebra – che – dopo aver constatato che le forze di polizia nissene non avevano alcuna specifica conoscenza delle dinamiche interne alle famiglie mafiose palermitane, con un’iniziativa affatto singolare, sollecitava una più stretta collaborazione del Sisde nell’espletamento delle indagini per la strage di Via D’Amelio”. E ancora più preoccupante è la richiesta dello stesso Tinebra il 20 luglio 1992, un solo giorno dopo l’attentato, che chiese a Contrada “di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura”. Ora, dopo trentadue anni, sarà la procura di Caltanissetta a ricostruire pezzo dopo pezzo le responsabilità dello Stato in una serie di indagini in cui ogni giorno compaiono nuovi particolari. Ma oggi lo Stato è sotto accusa ed è chiamato a rispondere nell’udienza preliminare rinviata a novembre.