«Sono stato spiato perché sono un giornalista o, meglio, in quanto direttore di Fanpage». Francesco Cancellato classe 1980 nasce a Lodi. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del giornale l’Inkiesta.it. Nel 2019 inizia a lavorare come giornalista per Fanpage e da maggio 2021 è direttore della testata. Cancellato è anche uno scrittore e ha pubblicato vari libri. La sua vita è finita in un intrigo internazionale degno di film di spionaggio. Lo spyware Graphite sviluppato dall’israeliana Paragon è stato usato per sorvegliare un centinaio tra giornalisti e attivisti tra cui appunto lui.
Il 30 gennaio 2025 è scoppiato il cosiddetto “Caso Paragon”, tu ne sei protagonista, cosa ti è accaduto?
«Tre settimane fa (l’intervista è stata realizzata il 21 febbraio 2025, ndr) ero a casa e ho ricevuto un messaggio da WhatsApp, con il quale sono stato avvisato che a dicembre era stato individuato ed interrotto un attacco Spyware al mio telefono e di contattare Citizen Lab, un centro di ricerca indipendente che mi avrebbe dato informazioni in più. Procedo, e mi viene detto che il software che mi ha spiato non è Pegasus di NSO Group ma non mi dicono che nome ha. Mi consigliano di mettere il cellulare in modalità aereo e di togliere la connessione wifi per evitare contaminazioni ulteriori. La storia stava uscendo, quindi poteva esserci il rischio che chi aveva usato lo Spyware potesse inquinare o manomettere il telefono o addirittura distruggere lo Spyware stesso».

Come hai capito che non si trattava di un semplice attacco hacker?
«Poco dopo aver fatto le operazioni suggerite, il giornale The Guardian batte la notizia che non si trattava di un semplice software di spionaggio o un hacking del mio profilo, come si può fare con un Trojan o con un tentativo di scam, le tipiche truffe informatiche, dove ti dicono di cliccare qualcosa e immediatamente sei spiato, dando il click, ma era un una cosa molto più raffinata, uno zero click. Viene inviato un pdf su WhatsApp e appena hai la doppia spunta grigia sotto al messaggio, lo Spyware è all’interno del tuo telefono. Quello che aveva infettato il mio cellulare, si chiamava Paragon, Graphite, per l’esattezza, ed era prodotto da un’azienda israeliana, la Paragon Solutions, che annovera nella lista soci l’ex ministro israeliano e membro del partito laburista, Ehud Barak. Studiando l’azienda scopriamo che vende il prodotto a 37 democrazie in tutto il mondo, come risposta etica a Pegasus, autorizzata dal ministero della Difesa israeliano. Nso l’azienda produttrice di Pegasus lo aveva venduto all’Arabia Saudita, che lo ha usato per pedinare e uccidere il giornalista Jamal Khashoggi in Turchia. Solo un governo può firmare un contratto per acquistarlo e lo può dare alla procura, alle forze dell’ordine, ai servizi segreti, può farne l’uso che ritiene più opportuno. Questo è quello che sappiamo il primo giorno. Uno di quei 37 governi mi aveva spiato».
Quante inchieste ci sono sul caso?
«Ci sono tre indagini in corso generate da tre esposti. Uno è il mio. Ho fatto denuncia alla procura di Napoli, che ha acquisito il mio telefono e farà tutti gli accertamenti sul dispositivo. Segue una seconda indagine, partita a Palermo, sull’esposto di un altro degli spiati, che ha deciso, come me, di rendere pubblica questa storia, l’attivista Luca Casarini, tra i fondatori di Mediterranea Ong, realtà attiva nel mondo dei migranti che comprende, tra gli spiati, anche l’armatore di Mediterranea Ong, Beppe Caccia. Infine c’è l’esposto alla procura di Roma, dal quale ritengo che partirà un’altra indagine, portata avanti dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa. Le indagini di tipo forense vanno di pari passo con quella giornalistica che coinvolge non solo noi di Fanpage e i giornali italiani, ma anche l’inglese The Guardian e alcuni quotidiani israeliani. Queste in qualche modo entrano in dialettica con le comunicazioni del governo italiano».
Il nostro Governo come è intervenuto?
«La prima comunicazione la fa il mercoledì successivo all’accaduto dicendo: <<Attenzione Paragon noi non l’abbiamo usato per spiare giornalisti e attivisti ma sappiamo che sono coinvolti 13 paesi in Europa e 90 persone tra le quali sette italiani >> rivelando i nomi dei 37 paesi spianti. L’attività di spionaggio riguarda persone che non avrebbero potuto essere spiate, perché questo software, venduto ai governi, può essere usato solamente per spiare terroristi o persone che costituiscono gravi minacce alla sicurezza nazionale, ad esempio trafficanti di droga, mafiosi e via dicendo. Quindi emerge chiaramente il tema dello spionaggio illegale, per questo io vengo avvisato, perché c’è un profilo di illegalità nel fatto che io venga spiato da un governo, in quanto giornalista, con questo Spyware che è un’arma d’offesa a tutti gli effetti. Il governo italiano ha poi comunicato: <<Non siamo noi che spiamo.>>. Il giorno seguente, sul quotidiano israeliano Haaretz e sull’inglese The Guardian, esce la notizia che Paragon avrebbe chiuso il contratto, o a detta di Haaretz, i contratti, con l’Italia, per gravi violazioni del codice etico».
Ad oggi cosa è emerso dalle indagini?
«Paragon dice che qualcosa in Italia non ha funzionato. Sotto il cappello dei contratti italiani sono stati commessi degli illeciti in questa attività di spionaggio. Il governo in aula ha ribadito che il contratto con Paragon era pienamente funzionante, due giorni dopo è stato costretto a smentire e a dire che in realtà aveva deciso con Paragon di sospenderlo perché come detto da Israele, Paragon, altrimenti, sarebbe uscita lei stessa con una smentita al governo italiano. In tutto questo ci si è chiesti, chi, tra intelligence e forze di polizia giudiziaria, potrebbe avere o aver avuto in uso Paragon. Aisi e Aise, i due servizi segreti interno e esterno, dicono che ce l’hanno ma non l’hanno usato per spiare i giornalisti. Le quattro principali procure italiane Milano, Roma, Napoli, Palermo, fanno sapere che loro non hanno in uso Paragon. Tutte le forze di polizia, da ultima la penitenziaria, dicono che nemmeno loro hanno in uso il software né lo hanno mai usato. Infine, “ciliegina sulla torta”, il governo decide di mettere il segreto di Stato sulla vicenda. Non autorizzando più nessuno a fare domande e a dare risposte sulla vicenda, scegliendo di far calare il silenzio, probabilmente per evitare altre gaffe, altri imbarazzi. Non sappiamo altro».
Perché mettere il segreto di Stato sulla vicenda?
«Il governo dice di aver secretato perché le informazioni relative allo spionaggio e all’uso di determinati software, in uso a loro, sono classificate e che dare informazioni sensibili potrebbe rovinare alcune attività di intercettazione di mafiosi o terroristi tutt’ora in corso. Mi auguro che questo non vada a discapito della volontà di fare chiarezza. Se è vero che c’è una parte illegittima nell’attività di spionaggio per me la chiarezza su ciò che di illegittimo c’è stato è tanto importante quanto quella legittima. Non vorrei che una parte fosse sacrificata all’altra. Tuttavia fa sorridere che il giorno dopo l’apposizione del segreto di Stato, il ministro Nordio, lo abbia violato, parlando di sua spontanea volontà e rivelando che la polizia penitenziaria non aveva in uso Paragon».
Il nostro giornale ha una rubrica di interviste “Sotto Scorta”, dove diamo voce ai giornalisti sotto protezione perché minacciati dalla mafia. Vedi una somiglianza tra quanto ti è successo e il modo di attaccare e minacciare loro?
«Per il momento no, perché non so chi mi ha spiato né perché lo ha fatto. Quello che ho detto è l’unica congettura che riesco a fare ma non ho certezze. Dobbiamo camminare passo per passo, come in generale tutti noi giornalisti siamo soliti fare. La grande differenza a mio avviso è che questo tentativo di spionaggio avviene nel contesto di un contratto firmato dallo Stato, non ho una forza criminale che mi spia, ma qualcosa che ha agito sotto la coperta di un qualunque Stato tra i 13 citati. Può essere l’Italia come qualsiasi altro. Questo, secondo me, differenzia le cose. Per quanto sia grave che un pezzo di Stato possa spiarti io mi sento anche tutelato da quella parte sana dello stesso che spero faccia luce sulla vicenda. Se fossi minacciato da un gruppo criminale, come succede ai giornalisti che fanno inchieste sulla mafia, sarei sicuramente molto più preoccupato».
Tu non sei una minaccia per lo Stato e nemmeno un criminale, perché ti hanno attaccato?
«Perché sono un giornalista. Non vedo altre spiegazioni al momento. Non ho né un profilo pubblico né privato tale da autorizzare o da rendere necessaria un’intrusione di questo tipo. Non sono neanche una grave minaccia alla sicurezza nazionale oppure una spia a mia volta o un terrorista. Evidentemente volevano sapere qualcosa di Fanpage. Io come direttore ho accesso alle fonti e tutto quello che è il mio giornale, anche le cose più riservate come ad esempio le nostre inchieste. Entrare nel mio telefono è l’unica porta d’ingresso a tutto ciò».
Dopo quello che ti è accaduto hai pensato di smettere di fare il giornalista?
«No, anzi, mi sento forse dentro alla storia più importante che abbia mai trattato in vita mia. Mio malgrado ne faccio parte e continuerò e sono molto motivato nel proseguire. Non c’è il rischio che smetta, forse da un lato se avessi paura smetterei, fino a che non ho paura non ha senso farlo. Sono proprio questi momenti nei quali se molli la dai vinta a chi ti sta spiando, a chi ti minaccia e a chi ti teme e non è il caso, soprattutto in questa fase. A mio avviso, ognuno è quello che fa, quindi, spinto da questa mia convinzione proseguo».