La storia di Vincenza Rando, detta Enza, attualmente senatrice del Partito Democratico, va ben oltre l’esperienza politica, visto che per anni si è occupata di difendere nelle aule di tribunale i familiari delle vittime di mafia. Oggi la sua battaglia continua in Senato, dove contesta a questo governo di non avere una preparazione adeguata a combattere il fenomeno mafioso, costantemente in evoluzione insieme alla società che cavalca. Nell’intervista rilasciata a #Noi Antimafia, la senatrice ha ricordato una delle sue più note assistite: Lea Garofalo, una donna che ha avuto il coraggio di abbandonare e denunciare la sua famiglia mafiosa. Fu uccisa dall’ex compagno nel 2009 a Milano, dove era stata attirata con la scusa di parlare del futuro della figlia. Parlando della testimone di giustizia, la senatrice Enza Rando si è tolta di dosso i panni dell’avvocata e della politica agguerrita, mostrando il rammarico di chi avrebbe voluto fare di più per salvare un’amica.
Secondo Lei il nostro governo sta indebolendo la legislazione antimafia?
«La tendenza sembra questa. La logica che si vede è quella di dire che le mafie, visto che non sparano più, sono state sconfitte e allora possiamo anche indebolire gli strumenti di lotta. La criminalità organizzata si sta insinuando però dove ci sono i soldi, in settori nuovi come la meccanica, ad esempio. Per queste ragioni, il governo non può limitarsi a dire che abbiamo la migliore legislazione antimafia al mondo, perché dobbiamo rafforzarla».
Quali sono gli strumenti di lotta che stanno indebolendo?
«Penso all’abolizione del reato di abuso d’ufficio, grazie al quale molte indagini sono partite per poi approdare nell’organizzazione mafiosa. Penso anche alla limitazione dell’uso delle intercettazioni, uno strumento voluto fortemente da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi non si può pensare neanche di indebolire i sistemi di prevenzione patrimoniale, come interdittive antimafia, sequestro e confisca dei beni, che vengono raccontati come strumenti che danneggiano l’economia. Per di più non vedo nessuna parola sul rafforzamento dei collaboratori di giustizia».
Riguardo l’abolizione del reato di abuso d’ufficio però molti sindaci Pd sono favorevoli. Come si vive questa contraddizione nel partito?
«Il reato d’abuso d’ufficio aveva bisogno di essere modificato, perché non c’erano delle condotte precise da imputare e questo generava problemi. Con la riforma del 2020 però il problema è stato risolto. Oggi i sindaci, con i quali ci siamo confrontati, hanno ben compreso cosa vuol dire questo reato e hanno anche capito che rafforza di più loro».
In Italia ci sono ritardi nella digitalizzazione del sistema giudiziario. Perché il governo non è intervenuto?
«La digitalizzazione serve ad avvicinare i cittadini alla giustizia, perché garantisce la certezza del tempo in cui si svolge un processo. Porta ad una velocizzazione dei tempi in cui un cittadino capisce se è colpevole o no, il che è fondamentale per la democrazia. Il Pnrr poteva essere un’ottima opportunità, anche per l’assunzione di nuovo personale tecnico, ma questo governo non vuole migliorare il senso della giustizia. Introduce solo nuovi reati e aumenti di pena, pensa solo alla mafia militare. A noi invece preoccupa anche quella che penetra nell’economia e mette a repentaglio la democrazia con le sue relazioni».
C’è poi un altro problema: lo Stato riesce a monitorare l’attività dei boss che escono dal carcere?
«Il punto è che non ci occupiamo del prima e del dopo l’uscita dal carcere. Molti boss continuano a comandare stando in galera, dove non si lavora sulla loro rieducazione. Per di più c’è anche il tema dei collaboratori di giustizia, che non avendo nulla dalle istituzioni, a volte sono stati reclutati di nuovo dalle organizzazioni mafiose e arrestati per droga. Su questo credo che ci sia impreparazione, indifferenza, oppure interesse nel colpire solo la mafia militare, cosa senza dubbio più semplice da fare».
Molti collaboratori di giustizia però scelgono di uscire da un programma di protezione per le condizioni che impone.
«È molto complicato, anche se la situazione oggi è migliorata. Prima non c’era una cultura di come considerare un collaboratore, che va via dal suo territorio, in luoghi in cui si deve cambiare identità. Si pensi ai bambini, ad esempio. Quello che cercheremo di fare, con l’iniziativa “Liberi di scegliere”, è dare un ruolo al terzo settore per fare in modo che le famiglie non vengano seguite solo dal punto di vista della sicurezza, ma anche dal punto di vista della socialità, della cultura. Bisogna creare una comunità che possa accogliere queste persone, soprattutto i bambini, che soffrono più di tutti».
Non riconosce nulla di buono a questo governo sulla legislazione antimafia?
«Ci devo pensare molto. Non vedo una legge o una norma che abbia fatto la differenza. Del resto tutte le leggi approvate sono finalizzate a rafforzare le pene, non ce n’è una che abbia determinato l’accelerazione dei processi. Mi sto sforzando, ma di cose positive non ne vedo francamente».
Su Delmastro e la difesa del 416 bis, ritenuto troppo duro dall’Ue, è soddisfatta?
«Lo ha fatto Delmastro questo? Francamente… Il 416 bis non si deve toccare. L’Unione Europea non conosce le dinamiche dell’organizzazione mafiosa del nostro Paese, perché in Europa c’è prettamente mafia economica. Non mi pare ci sia stata una voce forte di Delmastro in difesa del 416 bis. Che poi lo difenda, fa piacere, ma si ricordi che non si colpisce il 416 bis abolendolo, ma anche indebolendo gli strumenti detti prima».

Lei è stata avvocata di Lea Garofalo. Che donna era?
«Era una donna ribelle e coraggiosa. Mi impressionava il fatto che lei da sola, ragazza giovane con una figlia, avesse avuto il coraggio cambiare vita ribellandosi all’esistente, rinunciando al contesto mafioso in cui era nata e cresciuta. Comunque era una donna di grande intelligenza, oltre che generosa. Ricordo che la prima volta che venne da me in studio portò dei dolci, dicendo che non aveva niente e poteva offrire solo quello. Aveva compreso che la legalità era conveniente, e questo perché amava la libertà».
Quando pensa a Lea Garofalo ha in mente qualche episodio in particolare?
«Durante il processo abbiamo scoperto che volevano ucciderla a Firenze, ma non lo hanno fatto perché c’ero io e sarebbe stato più complicato, quindi hanno deciso di farlo a Milano. Quando le mandai un messaggio per dirle di accettare quello che le offriva Libera, cioè un lavoro e qualche aiuto, lei rifiutò perché non voleva dipendere da nessuno. Ricordo anche il messaggio in cui diceva che per grazia di Dio la figlia aveva accettato l’aiuto che le avevamo proposto».
Ricorda il giorno della sua morte?
«Stavo guidando la macchina e mi chiamarono i carabinieri di Milano. Appena vidi il prefisso 02, capii subito che era successo qualcosa, sapevo che l’avrebbero uccisa. Dico sempre che forse avrei dovuto chiuderla in una stanza e buttare le chiavi per non farla andare a Milano, dove effettivamente è stata uccisa dal compagno».
Cosa si poteva fare in più per proteggerla?
«Il sistema di protezione poteva fare molto di più, visto che la buttò fuori dal programma definitivo perché non c’era un processo. Lea Garofalo aveva sì denunciato la famiglia, ma non aveva delle prove effettive. Nonostante questo però bisognava proteggerla, cosa che non è stata fatta. La procura nazionale diceva che non aveva elementi per essere inserita nel programma, la procura distrettuale invece sì. In tutto questo non la inserirono da nessuna parte. La cosa che faceva arrabbiare Lea era il fatto di non essere protetta dallo Stato. Al contrario, si fece di tutto per proteggere la figlia».
