Un’eroina shakespeariana. Non si potrebbe definirla diversamente, ma non è questa la prima immagine che viene in mente pensando a Letizia Battaglia, l’epitome italiana del reportage fotografico, nata 90 anni fa, il 5 marzo 1935. Soprattutto fotografa della mafia e della resistenza civile, ma non solo. Alla fotografa palermitana si devono i ritratti più intensi di alcuni dei simboli della cultura italiana che lei ha chiamato amici, da Franca Rame ai tempi dei bagni di folla della Palazzina Liberty a Pier Paolo Pasolini.
Pier Paolo Pasolini
Allo scrittore friulano, l’obiettivo della reporter restituisce un volto segnato ed espressivo. Proprio come quello dei bambini di Palermo, da lei eternati negli scatti degli anni in cui scattava per il Giornale L’Ora. Come le ambientazioni dei suoi romanzi, Battaglia è infatti riuscita a restituire una Palermo “struggente”, come viene definita in “Shooting the mafia”, il documentario del regista inglese Kim Longinotto, disponibile su Prime video, in cui per l’ultima volta prende la parola e ripercorre a ritroso le tappe della sua biografia.
I bambini di Battaglia
I bambini fotografati da Battaglia vivono una città povera e piena di dignità, abitata da una mafia stracciona, ma non meno crudele, e somigliano molto ai bambini che Pasolini descriveva nei suoi romanzi, trasformandoli in simboli di speranza di un futuro possibile di utopistica purezza, schiacciata dalla crudeltà di un mondo che, come la criminalità organizzata, offre loro un sogno solo per meglio rovinarli. Battaglia racconta che a quei bambini l’immagine del killer consegna la possibilità di un gioco e la speranza di diventare potenti. Eppure, di loro, allora come davanti alla macchina da presa, Battaglia dice: «Credo moltissimo alla generazione futura, a quello che possono fare questi bambini di oggi».
Le vittime della mafia
La realtà della violenza dalla mafia, che lei fotografa negli anni in cui miete più di mille morti l’anno, è quella invece di corpi riversi, come quello di una giovane donna in cui, a Torino, una bambina riconobbe sua madre: una giovane prostituta uccisa per aver cercato di mantenere la figlia senza chiedere il permesso ai clan. Il suo, come quello del giudice Terranova riverso al volante della sua auto, quello rabbioso di Leoluca Bagarella in manette, sono corpi a loro modo epici. Lo sa bene la stessa Letizia Battaglia, che per questo racconta di aver guardato quelle fotografie anche con disprezzo: «Voglio bruciarle, togliere loro la bellezza che hanno per gli altri» , chiosa con decisione nel documentario. Eppure, il fascino di quelle immagini risiede soprattutto nella loro efficacia nel raccontare una storia, illuminando un frammento di realtà. Svolgono cioè il compito primo del reportage fotografico.
Il potere di uno scatto
È il suo potere, del resto, ad aver cambiato la vita di una ragazza che con l’occhio agli obiettivi delle camere racconta di essere «diventata una persona, perché prima non ero veramente una persona» nel momento in cui ha preso in mano una Leica. «Mi sono innamorata di quello che riuscivo a esprimere con la macchina fotografica e che non potevo esprimere scrivendo», commenta Battaglia ricordando i propri inizi. Svolgendo, così facendo, un lavoro che funge da esempio per ogni giornalista d’inchiesta che, dalla forza delle immagini, d’altra parte guadagna un’efficacia di cui soprattutto oggi non si potrebbe più fare a meno.
Una vita da reporter
L’importanza del lavoro di Letizia Battaglia reporter è sancito dalla sua storia personale in qualità di prima fotografa in Italia a lavorare per un giornale, l’Ora di Palermo, per 19 anni, ma anche da colleghi di blasone come la redazione di Life che, nel 1985, le assegna, prima donna europea, il Premio Eugene Smith a New York, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il proprio collega Eugene Smith. Un altro premio, il Mother Johnson Achievement for Life, le sarà poi tributato nel 1999. A dimostrare, però, il valore capitale di Battaglia nel definire il genere del fotoreportage, sono le evocazioni che possono muovere dalle sue immagini. Si pensi, ad esempio, proprio a Shakespeare. Nel documentario di Longinotto sono i suoi amici a definire Battaglia un’eroina che potrebbe venire direttamente dalla produzione del drammaturgo inglese. Potrebbe esserlo la sua vita di bambina a cui la molestia di un guardone a dieci anni ha «negato la libertà» – racconta – per mano di un padre che da allora vorrà nasconderla da ogni sguardo maschile. E poi la sua crescita di ragazza, sposa a sedici anni di un uomo incontrato per scappare dalla reclusione paterna e lasciato quando, vent’anni più tardi, le sparerà un colpo di pistola.
All’indomani di questa esperienza inizia la vita di Letizia Battaglia fotografa, già – dice – quarantenne, che proseguirà poi, a seguito degli anni nella redazione dell’Ora, con una “agenzia di informazione fotografica” fondata insieme al collega Franco Zecchin. A restituire tutta la forza, narrativa e dunque civile, del reportage di Battaglia, scomodando ancora una volta il drammaturgo di Stratford, sono foto diventate icona. Il corpo di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, tirato fuori dall’abitacolo della sua auto appena dopo l’agguato sotto gli occhi della moglie. Come può non far venire in mente una Antigone dei nostri giorni?
Gli eroi moderni
I protagonisti delle foto di Battaglia sono eroi moderni, e lo sono perché – anche tra quelle di mafia – si contano potentissime fotografie di vita, accanto a quelle di morte. Dai suoi vividissimi bianco e nero, infatti, svettano simboli come Giovanni Falcone colto mentre cammina, mai in posa. Chiedendolo a lei, tuttavia, a rendere la dimensione umana e simbolica dei protagonisti della lotta alla mafia sono soprattutto le foto scattate soltanto con la memoria. Paolo Borsellino che cammina avanti e indietro, solo e consapevole della morte vicina. Il suo corpo smembrato in via D’Amelio, di cui Battaglia si rifiuterà di fotografare i resti o l’auto lanciata sui rami dell’albero che affaccia sul palazzo dalla violenza dell’esplosione. Così come rifiuterà di immortalare il sorriso di Luciano Liggio che sembra il padrone del tribunale durante il maxiprocesso, a cui Battaglia non volle andare per non guardare, di nuovo, in faccia l’orrore, come ha fatto per decenni per permettere, invece, di farlo a chiunque leggesse un giornale.
Le stragi e la fine della carriera
La morte di Falcone e Borsellino metterà – almeno formalmente – una fine alla carriera di Letizia Battaglia come fotografa di mafia, perché, commenta alla macchina da presa di Longinotto: «Non si può essere più felici veramente se hai vissuto tutto questo orrore. Tutto questo dolore, di quelli che rimangono» . Non si vedrà del resto mai affievolire la sua caratura di eccelsa fotoreporter, terminata soltanto con la sua vita il 13 aprile 2022, nonostante una parentesi da deputata che ricorderà come «il periodo più brutto della mia vita, perché tutto veniva deciso altrove» . Letizia Battaglia del reporter ha conservato il coraggio, ironicamente cinico ma senza incoscienza. «Può essere che ti sparano. Ti adatti, e l’accetti». Ciò che consegna al presente è una postura, un modo di concepire e vivere l’antimafia, che è una importante lezione di chi ha vissuto la vita come «una lotta, senza saperlo. Ma forse, soprattutto, è una lezione su come attraversare l’esistenza; quando, sicura, confida: «La paura è un lusso. Io non posso avere paura. Noi non dobbiamo avere paura. Io mi sento libera, perché sono libera dentro» .