Questa avventura inizia negli anni Ottanta, con l’approvazione della legge 626 del 13 settembre 1982, meglio conosciuta come legge Rognoni-La Torre. Prima di allora la lotta alla mafia era «senza unghie» aveva dichiarato nel 1970 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa davanti alla Commissione antimafia. A partire dal marzo 1980 si sono susseguite in Parlamento proposte di legge presentate dal deputato comunista Pio La Torre e disegni di legge a firma del ministro della Giustizia democristiano, Vittorio Rognoni. L’obiettivo era sempre lo stesso, colpire la mafia in ciò che gli era più caro: i soldi. Non era facile però. Nella magistratura e in Parlamento c’era chi era contrario, specialmente la corrente della Democrazia Cristiana guidata da Giulio Andreotti, a cui verrà poi riconosciuto dalla Corte di Cassazione di aver «concretamente collaborato» con la mafia almeno fino alla primavera del 1980.
Una legge di portata storica
I testi presentati troveranno finalmente la loro forma finale due anni dopo nella legge Rognoni-La Torre, ma Pio La Torre non arriverà a vederla compiuta. Fu infatti assassinato da cosa nostra il 30 aprile dello stesso anno, insieme al suo autista Rosario Di Salvo. La nuova legge è stata di portata storica, con l’introduzione dell’articolo 416 bis nel Codice penale: per la prima volta sarebbe bastato appartenere all’associazione per essere condannati, al di là dei fatti delittuosi individualmente commessi. Ma la vera novità del provvedimento era la possibilità del sequestro e poi confisca dei beni dei condannati per mafia.
La destinazione a fini di utilità sociale
La confisca dei beni prevista nel 1982 ha poi trovato il suo compimento nella seconda metà degli anni Novanta. Dopo le stragi di mafia, si era diffusa l’idea di restituire alla comunità le ricchezze accumulate illecitamente dalle mafie, così alcuni deputati avevano firmato una proposta di legge, perché i beni illeciti fossero prontamente confiscati e destinati ad attività con utilità sociali. Il primo firmatario fu l’ex magistrato del pool antimafia di Palermo Giuseppe Di Lello Finuolo, ma tra gli altri promotori c’era anche l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Accanto a questa proposta nel frattempo, fuori dal Parlamento, la neonata associazione antimafia Libera portava avanti una campagna di firme parallela “Le mafie restituiscono il maltolto”. La proposta si trasformò in legge il 7 marzo 1996 con la legge numero 109.
Da allora, lo strumento del sequestro e della successiva confisca è stato al centro di un articolato percorso di riforma diretto all’ampliamento della sua operatività, fino ad essere modificato anche in sede normativa con l’istituzione del cosiddetto Codice Antimafia del 2011, che ha riordinato le leggi in materia definendo meglio anche il ruolo dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), nata solo nel 2010 e che interviene solo a confisca definitiva del bene, dopo il terzo grado di giudizio. Prima di allora, a gestire il bene sequestrato ci pensava l’amministratore giudiziario, nominato dal giudice.
I beni confiscati
Secondo i dati forniti al nostro mensile direttamente dall’Anbsc, che coprono il periodo dall’inizio dell’attività dell’Agenzia fino al 31 dicembre 2024, dei 26.427 immobili confiscati definitivamente 20.455 sono stati destinati agli enti territoriali, ossia vengono restituiti al territorio. Il 36,5 percento di questi in Sicilia, che contribuiva al totale degli immobili destinati con oltre 10mila di questi. Non si sa però, poi, a quali progetti specifici siano destinati. Per quanto riguarda le aziende, delle 2.340 confiscate e pronte alla destinazione quasi il 94 per cento di esse è stato liquidato, mentre solo 137 sono state vendute e 4 affittate. Bisogna comunque tenere presente che molte di loro potrebbero essere imprese fittizie sfruttate per fini criminali.
I beni non destinati
Per quanto riguarda gli immobili in gestione per iter giudiziario sono 17.793, di cui 13. 338 sono stati confiscati in maniera definitiva ma non ancora destinati, ossia il 75 per cento. Le aziende in gestione per iter giudiziario sono in totale 3.265 cui confiscate definitivamente ben 2.122 ossia il 65 per cento. Le percentuali di beni in confisca definitiva non ancora destinati sono alte. Per utilizzare alcuni di questi beni non destinati, la prefetta Maria Rosaria Laganà, direttrice dell’Agenzia nazionale ha proposto una collaborazione con la commissaria straordinaria per gli alloggi universitari Manuela Manenti, che ha il compito di realizzare delle abitazioni per gli studenti universitari entro il 2026. Inoltre, sempre come specificato a #Noi Antimafia dalla prefetta, per evitare che molti beni rimangano abbandonati «si consente di utilizzare il bene per finalità di lucro: ossia il Comune può anche prendere un bene e metterlo semplicemente in affitto, usando però la rendita con scopi sociali». In ultimo c’è anche l’ipotesi della demolizione «è anche questa prevista dal codice antimafia – precisa Laganà – anche se si lascia proprio come ultima ipotesi, però anche questo può essere un segno forte, come nel caso di Palazzo Fienga a Torre Annunziata, troppo costoso per essere riconvertito, che verrà abbattuto e al suo posto nascerà una piazza, Piazza della Legalità».
Il portale dei beni
I privati cittadini possono consultare la pagina infoweb dell’Anbsc che illustra i beni destinati e in amministrazione; tuttavia, come ammesso dalla stessa pagina «In considerazione delle attività di re-ingegnerizzazione del processo di destinazione e contestuale rinnovo della piattaforma infoweb, al momento i dati relativi alle destinazioni dei beni potrebbero essere sottostimati». E anche i numeri dei beni in amministrazione risultano differenti da quelli forniteci dall’Agenzia. Esiste poi la piattaforma unica di destinazione dedicata a chi deve opzionare i beni e quindi dedicata agli enti e ai soggetti iscritti al Registro unico nazionale del terzo settore.
Legge e realtà
Sulla carta la gestione dei beni confiscati appare idilliaca, dopotutto la legge italiana in materia è presa come esempio virtuoso in tanti altri paesi del mondo, ma non sempre le previsioni normative combaciano con la realtà, con il rischio di vanificare la lotta di chi è morto per la realizzazione di queste leggi. Basterebbe andare a guardare da vicino uno tra i tanti piccoli comuni italiani con una forte presenza mafiosa: Buccinasco, vicino Milano. La villa del capomafia di quella zona, Rocco Papalia, era stata confiscata per metà: una parte alla moglie incensurata e l’altra al Comune, che ne aveva fatto un centro di accoglienza per i minori rifugiati e aveva apposto dei cancelli nel cortile per separare le due strutture. Un errore del demanio aveva in realtà destinato il cortile alla moglie del boss e appena uscito di prigione nel 2017 Papalia (dopo aver scontato ventisei dei quarant’anni a cui era stato condannato) ha intentato una causa davanti al giudice di pace. Il neoeletto sindaco, Rino Pruiti, nonché coadiutore dell’Agenzia nazionale ha detto a #Noi Antimafia di aver più volte fatto presente che «non si trattava di una questione meramente condominiale» e di aver chiesto che ad occuparsene fosse un «giudice penale, così si sarebbe potuta rivedere la sentenza originaria andando a modificare il perimetro della confisca. Ma nessuno se n’è interessato, nemmeno a Roma». Dopo tre anni, il tribunale ha dato ragione a Papalia «costringendo il Comune a dare i soldi alla mafia e ad aprire i cancelli, ponendo fine all’esperienza del centro per minori perché non potevo lasciare dei bambini lì» ha commentato il sindaco.
Beni abbandonati o non fruibili
Chiudere il centro è stato «un grande segno di sconfitta» ha detto Rino Pruiti, per questo l’allora prefetto di Milano, Renato Saccone, ha convinto Pruiti «a condividere il bene con altri cinque comuni del distretto e dal vecchio centro per minori è nato un locale per ospitare i rifugiati che scappavano dalla guerra in Ucraina». Il caso della villa è emblematico, secondo il sindaco la divisione è stata fatta «d’ufficio, senza davvero rendersi conto di com’era e se avrebbe funzionato o meno. La cosa scandalosa – continua Pruiti – è che potrebbe essere fatto un decreto che preveda che i beni debbano essere fruibili, così se in un bene confiscato accade che ci sono problemi con gli spazi comuni c’è la legge scritta che li risolve».
Questo non è l’unico problema a Buccinasco e in comuni simili. «Il problema dei beni confiscati è che ce ne sono decine e decine e nessuno li vuole, molti sono inutilizzabili e che siano abbandonati è una sconfitta – continua Pruiti – diversi miei colleghi Sindaci non li accettano, in parte perché magari gli vengono consegnati con abusi edilizi o che richiedono spese importanti che i piccoli comuni non possono sostenere. In parte invece è perché non se la sentono, alla fine nei comuni piccoli si conoscono tutti».
Pochi fondi per gestirli
La Regione Lombardia ha messo a disposizione dei fondi per la gestione dei beni confiscati, ma anche così la situazione non è delle migliori. Pruiti aggiunge che «In una regione con dieci milioni di abitanti, la più popolosa d’Italia, il fondo prevede la restituzione solo del 50 per cento dei soldi spesi per sistemare un determinato bene confiscato, per di più a consuntivo, quindi prima bisogna spendere i soldi, poi fatturare e infine collaudare e solo dopo ti danno i soldi. I Comuni che non hanno nemmeno liquidità di cassa non ce la fanno».
Dal 2023 Pruiti è anche Consigliere metropolitano per la città di Milano con delega ai beni confiscati e alla legalità. «Mi sono detto: tutti i beni che i Comuni non riescono a prendere se ne occupa la Città metropolitana, ma sto fallendo, le Città metropolitane hanno passivi enormi e così quella di Milano ha dichiarato che si prenderà solo i beni che le servono. Quindi i comuni non se li prendono, le città metropolitane nemmeno, così come il Demanio e i beni rimangono abbandonati. Ed è scandaloso perché la cosa che temono di più questi criminali è se gli tocchi i soldi e gli appartamenti, non la galera».