Depistaggio Borsellino, al via il secondo processo: “Con i 121 non ricordo avete umiliato lo Stato”

Depistaggio Borsellino, al via il secondo processo: “Con i 121 non ricordo avete umiliato lo Stato”

La vicenda del depistaggio sulla strage di via d’Amelio si è infittita in questi ultimi mesi del 2024 quando finalmente, dopo trentadue anni, la procura di Caltanissetta ha messo nero su bianco la responsabilità dello Stato, sia della presidenza del Consiglio dei ministri che del ministero dell’Interno, nell’allontanamento della verità dall’attentato del 19 luglio 1992 in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Quattro poliziotti sono stati rinviati a giudizio per aver detto il falso nel primo processo per depistaggio. Ora si aprirà un secondo processo per indagare su questa impalcatura deviante. 

Governo e Viminale responsabili civili

Riavvolgiamo il nastro perché, se l’accoglimento del gup di Caltanissetta David Salvucci nell’ottobre 2024 delle richieste dei figli di Borsellino di citare come responsabili civili Palazzo Chigi e il Viminale ha segnato una svolta nel quadro del sistema-depistaggio, un altro passo avanti si è fatto il 15 novembre con il rinvio a giudizio dei quattro poliziotti del gruppo di indagine Falcone-Borsellino. Stiamo parlando di Vincenzo Maniscaldi, Giuseppe Di Gangi, Maurizio Zerilli e Angelo Tedesco accusati di aver deposto il falso nel processo per depistaggio in cui erano imputati altri tre agenti, due dei quali sono stati prescritti ed uno assolto.

I 121 non ricordo

La richiesta di rinvio a giudizio, avanzata dal pm Maurizio Bonaccorso, arriva dopo una serie di botta e risposta tra l’accusa e la difesa. La procura nissena parla di “reticenze in malafede e false dichiarazioni rese con l’obiettivo – chiaro – di inquinamento probatorio”. E ancora sottolinea che “i troppi silenzi” e “non ricordo” pronunciati nel corso del primo processo per depistaggio dagli agenti coprono, con l’intento di nascondere “momenti scuri dell’attività investigativa del gruppo investigativo Falcone – Borsellino”. Sono ben 121 i “non ricordo” detti da Maurizio Zerilli, pochi meno quelli di Angelo Tedesco e Giuseppe Di Gangi, mentre Vincenzo Maniscaldi – scrive la procura di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del primo processo per depistaggio – “si è spinto a riferire circostanze false”.

“Omertà istituzionale e dichiarazioni insincere”

Nel primo processo per depistaggio che ha cercato di smantellare pezzo dopo pezzo la maschera del “pupo vestito” Vincenzo Scarantino, il falso pentito per eccellenza del sistema-depistante di via d’Amelio, la procura di Caltanissetta ha parlato di “un clima di omertà istituzionale i cui soggetti appartenenti o ex appartenenti alla polizia di Stato e al gruppo Falcone – Borsellino hanno reso dichiarazioni insincere”. Tutto il taciuto che ancora scorre tra pezzi dello Stato decolla già lo stesso giorno della strage del luglio ’92 con la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. 

 La scomparsa dell’agenda rossa

L’agenda, infatti, è una delle chiavi per capire quanto è accaduto trentadue anni fa. Dalla sentenza-guida del Borsellino quater del 2017 sono emersi una serie di passaggi di mano dell’agenda del giudice Borsellino che hanno messo in primo piano ancora una volta il ruolo del capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, nonché il presunto regista del depistaggio. Ma, si legge nella sentenza del 2017 “già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del Magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti”. Gli uomini “ben vestiti” che alcuni testimoni raccontano di aver visto nel luogo dell’eccidio apparterrebbero al Sisde, ma c’è di più, e qui si rafforza la tesi della procura nissena sul “clima di omertà istituzionale” perché – scrive sempre la Corte d’Assise – “chi notava detta presenza di quella ‘gente di Roma’ (oggettivamente anomala, se non altro per i tempi), non riteneva di riferire alcunché ai propri superiori gerarchici o ai Pubblici Ministeri”. 

La difesa dei quattro agenti

Sul ruolo che i quattro agenti guidati dall’allora questore Arnaldo La Barbera avrebbero avuto nel depistare, la difesa aveva già messo le mani avanti sostenendo, nel corso della prima udienza del dibattimento, che i quattro fossero “l’ultimo chiodo della ruota di un carro che muove qualcun altro”. I legali di Zerilli e Tedesco hanno sostenuto, infatti, che i due – Zerilli e Tedesco – “erano semplici agenti che rivestivano dei ruoli tali da non potere essere in alcun modo partecipi di finalità di questa portata”. E ancora che “non hanno depistato e mentito al processo”, ma erano dei “servitori dello Stato”.

 Le anomalie della collaborazione di Scarantino

Le contraddizioni sono ancora molte, ma quel che è certo è che il falso pentito Vincenzo Scarantino – che inizia a collaborare nel giugno ’94 dopo l’accusa di aver partecipato all’organizzazione della strage – viene affidato, si legge nella relazione conclusiva dell’inchiesta sul depistaggio di via d’Amelio della Commissione regionale antimafia della regione Sicilia, al gruppo d’indagine Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera e non al servizio centrale di protezione.

Ma c’è di più perché, riporta l’analisi della Commissione siciliana, a richiedere i colloqui investigativi con Scarantino era stato lo stesso La Barbera autorizzato da Ilda Boccassini e Roberto Sajeva. Un’ anomalia questa, non solo per il numero di colloqui “dieci e consecutivi”, ma anche perché – questi colloqui con finalità d’indagine – non era una prassi, ma al contrario accadeva che “nel momento in cui cominciava una collaborazione i colloqui investigativi cessavano”. Ancora, molti dubbi affiorano, secondo la Commissione, attorno “alla scelta di affidare Vincenzo Scarantino alle ‘cure’ del gruppo investigativo Falcone-Borsellino – estromettendo – di fatto e per un lungo periodo, il personale del servizio centrale di protezione da qualsiasi contatto diretto con Scarantino”. Infatti “gli unici che avevano accesso all’interno della casa – dove era protetto Scarantino – erano funzionari e sottufficiali del gruppo Falcone-Borsellino”, i soli che con il “pupo vestito” potevano avere un contatto diretto.

 Lo Stato umiliato

Il rinvio a giudizio per depistaggio e l’accoglimento da parte del gup David Salvucci della citazione come responsabili civili di Palazzo Chigi e del Viminale apre uno squarcio di luce, certo è che ancora dopo trentadue anni la verità è troppo lontana e i dettagli che la procura nissena sta mettendo in fila uno dopo l’altro mettono le mani direttamente nelle maglie dello Stato. E ancora una volta risuonano chiare le parole di Fabio Trizzino, il legale dei figli di Paolo Borsellino che, nell’udienza del novembre 2024 rivolgendosi ai quattro agenti del gruppo Falcone – Borsellino, ha detto “avete visto che stavano creando il mostro – Scarantino – e avete taciuto. Poi, quando finalmente l’impostura si è disvelata, dovevate darci una mano. Dovevate dirci quello che avete visto, quello che i vostri colleghi hanno commesso. Alcuni hanno mentito in maniera spudorata. Abbiamo assistito a momenti in cui avete umiliato i vostri colleghi, la memoria dei vostri colleghi”. Quindi lo Stato e i suoi uomini.