Interviste sotto scorta. Paolo Borrometi: “Dall’inchiesta sulle infiltrazioni della mala nella politica alle agromafie: per questo vivo blindato dal 2014”

Interviste sotto scorta. Paolo Borrometi: “Dall’inchiesta sulle infiltrazioni della mala nella politica alle agromafie: per questo vivo blindato dal 2014”

“Vivo sotto scorta dei carabinieri dal 26 agosto 2014”. Paolo Borrometi nasce a Ragusa il 1° febbraio 1983, il suo accento marcatamente siciliano evidenzia tutto il suo orgoglio di essere originario di quella terra. Giornalista e scrittore, inizia la sua carriera nel Giornale di Sicilia. Codirettore dell’agenzia di stampa AGI e fondatore de La Spia-contro ogni forma di mafia, da anni scrive inchieste sulla mafia siciliana, in particolare in relazione alle zone di Ragusa e Siracusa. Con la nostra conversazione con Paolo Borrometi diamo il via al nostro format di interviste dedicate ai giornalisti che vivono sotto scorta.

Come nasce la passione per il giornalismo?

Sognavo di fare “il giornalista giornalista” come diceva Giancarlo Siani, nel meraviglioso film Fortapàsc. Sono laureato in giurisprudenza, in famiglia siamo avvocati da quattro generazioni, avrei potuto stare comodo tra le mura di uno studio legale, facendo poco avrei guadagnato tanto.

Qual è l’inchiesta che l’ha portata alla vita sotto protezione?

Una domanda molto difficile alla quale rispondere, non so trovare un’inchiesta scatenante di partenza, sono talmente tante. Mi sono occupato di agromafie, delle infiltrazioni mafiose nella politica, sempre facendo nomi e cognomi.

Quando sono iniziate le intimidazioni?

Le intimidazioni sono cominciate nel 2012. Prima erano bigliettini, telefonate anonime, poi la scritta “stai attento” incisa con un punteruolo sul lato guidatore della mia auto. Due anni dopo, il 16 aprile 2014, stavo dando da mangiare al mio cane, un pastore tedesco, quando sono arrivati incappucciati e mi hanno aggredito, dicendo: “se non ti fai i fatti tuoi questa è solo la prima”. Quella violenza mi ha lasciato una menomazione alla spalla, ma questa è solo la cicatrice fisica. Tra il 24 e 25 agosto 2014, hanno incendiato la mia casa a Modica, forse partendo dallo zerbino: nell’abitazione c’erano anche i miei genitori. Da allora vivo sotto scorta. Nel gennaio 2015, qualche tempo dopo l’accaduto, mi sono trasferito dalla mia terra a Roma sotto consiglio degli inquirenti, ma continuo a scrivere inchieste sulla Sicilia.

Da chi la protegge lo Stato?

Lo Stato mi protegge da tanti. Ho almeno tre condanne a morte per aver fatto nomi e cognomi, per aver raccontato e documentato. Ad oggi sono coinvolto in 57 processi, come parte offesa, e in tre casi – con sentenza passata in giudicato – sono stato riconosciuto come vittima di mafia. In totale sono state condannate 32 persone nei processi in cui io rappresento la parte lesa: in particolare, tra i condannati con sentenza passata in giudicato e appartenenza mafiosa ci sono il capomafia di Vittoria (Ragusa), Giambattista Ventura, Venerando Lauretta, boss del clan di Vittoria, e il fratello del boss della cosca di Siracusa Francesco De Carolis. In primo grado, invece, è stato condannato il capomafia di Pachino (Siracusa), Salvatore Giuliano e suo figlio Gabriele Giuliano, oltre ad altre persone per minacce nei miei confronti.

Il conforto e l’appoggio per andare avanti, dove l’ha trovato?

La famiglia di origine è fondamentale, siamo le scelte che facciamo ma anche l’educazione ricevuta. Mi è stato insegnato a non girarmi dall’altra parte, e io ho messo a frutto questo insegnamento. Quando arrivai a Roma, le ultime persone che vedevo la sera e le prime che vedevo la mattina erano i ragazzi della scorta, e in quel frangente mio padre mi diede un biglietto con scritto ”Mai giù sempre sù”. Un monito a non arrendersi che da sempre teneva per sé. Questo per me ha costituito un simbolo di vicinanza: anche se lontani, ho sempre sentito i miei genitori vicini.

Quando la definiscono eroe cosa pensa?

Io non sono un eroe. Cerchiamo di ricondurre tutto alla normalità, stiamo eroicizziamo comportamenti che dovrebbero essere ritenuti normali. Se un giornalista non racconta, non sta facendo il suo dovere, e io volevo contribuire facendo il mio lavoro. A nove anni quando il sangue sgorgava su quel tratto di autostrada a Capaci, quando morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Francesco Montinaro, la gente si girava dall’altro lato. E se ciò accadeva in una terra come la Sicilia con segreti indicibili e traditori infedeli dello Stato che hanno allontanato la verità, allora bisognava che questa verità venisse raccontata. Non penso di essere un eroe, sono un giornalista che sta facendo il proprio dovere senza cedere alla violenza fisica e psicologica dell’omertà mafiosa. Per cui, rifiuto anche la definizione di giornalista antimafia.

Perché?

Per me esistono i giornalisti, punto. Senza definizioni.

Ventidue giornalisti italiani vivono ad oggi sotto scorta per minacce mafiose: è una sconfitta dello Stato secondo lei?

Non drammatizziamo la vita sotto scorta. Lo Stato ci ha dato la protezione, nel mio caso mi ha salvato la vita, e lo testimonia l’intercettazione di Simone Castello, braccio destro di Bernardo Provenzano, che dice: ”Borrometi per ora ha la scorta ma noi teniamolo a mente”. La nostra è una vita piena di privazioni, ma che riguardano la sfera privata e non il mio essere giornalista. Non è un merito, non è una sconfitta dello Stato. Noi siamo vivi grazie alla scorta: si tratta è un riconoscimento, una comprensione dello Stato, se pensiamo che otto giornalisti sono stati uccisi in Sicilia e uno in Campania. Purtroppo alcune condanne nei confronti di coloro che sono la causa di questa vita sono leggere, ma è una vittoria che lo Stato renda possibile continuare a fare il proprio lavoro. La sconfitta è la mancanza di certezza della pena e tempi lunghissimi per arrivare a condanne definitive.

Che rapporto ha con i carabinieri della scorta?

Sono i miei angeli, sono carabinieri ma prima ancora sono uomini e donne che mettono a rischio la propria incolumità per difendere non solo la vita di Paolo Borrometi, ma un principio molto più alto della mia vita: il diritto di tutte le persone che vengono informate tramite il mio lavoro e quello dei miei 21 colleghi che vivono sotto protezione. Attraverso me, gli agenti difendono il diritto dell’Articolo 21 a conoscere cosa accade per saper sempre scegliere da che parte stare.

Quando prevede una fine della sua vita sotto protezione?

Sono credente, quindi inevitabilmente quello che mi è accaduto mi ha portato a riflettere su una fine, ma non è prevedibile quando sarà. Non sono convinto che la situazione sia cambiata più di tanto dalla fase stragista, non sappiamo bene cosa può accadere: penso a Daphne Caruana Galizia uccisa non lontano dalla Sicilia, nella sua Malta, o ancora a Jan Kuciak e la fidanzata Martina Kusnirova in Slovacchia. Questo è tutto ciò che accade: la scorta è un deterrente ma i pericoli sono troppo variabili. Mi fido dell’autorità dello Stato, che mi ha salvato la vita. Quando i processi saranno finiti spero di tornare libero.